Intervista

Fine vita, il vescovo Solmi: «Garantire la dignità della persona»

Luca Molinari

La scelta della Toscana di approvare una legge regionale sul fine vita, ha riacceso il dibattito su questa delicata materia. Sulla questione è intervenuta la Cei, soffermandosi sulla necessità di dibattere la materia in parlamento per arrivare a una normativa nazionale.

Il vescovo Enrico Solmi ribadisce che una norma nazionale «impedisce differenze sostanziali da regione a regione e non permette di aprire la porta, come di fatto è accaduto in tanti Stati, ad una generalizzazione dell’eutanasia».

Monsignor Enrico Solmi il fine vita torna al centro del dibattito pubblico. È necessaria una legge?

«Il contesto in cui si pone il tema del “fine vita” e le scelte operate da diversi Stati, anche europei, richiedono una normativa che eviti abusi e che garantisca la dignità della persona, salvaguardando il valore della vita e la missione del personale sanitario volta alla cura della persona e non alla sua soppressione. Proprio a questo riguardo è importantissimo creare o ricreare un clima di fiducia del personale sanitario con i pazienti e le loro famiglie, un clima che consenta un dialogo confidente anche nella malattia grave e nel fine vita. Questa relazione non si può dare per legge, in quanto si situa nel terreno delle relazioni interpersonali insite nella professione sanitaria. Si può mettere in atto, anche attraverso norme, una serie di condizioni che la facilitino, ad esempio formulando protocolli di intervento che garantiscano il tempo per il rapporto medico paziente e un’adeguata formazione dei sanitari anche sotto il profilo antropologico, cosa, del resto, inscritta nelle finalità della loro professione, come espresso nel codice deontologico».

L’Emilia-Romagna ha approvato una delibera di giunta sulla delicata materia. Le sembra una buona soluzione?

«Davanti al dolore, a diagnosi infauste e all’avvicinarsi della morte, dobbiamo tutti avere un atteggiamento rispettoso e umile e interrogare noi stessi per capire con la fine della vita, anche il “fine”, il senso che diamo a tutto questo. Qui la speranza è una parola seria! In questo scenario lo strappo della Regione Emilia Romagna, un anno fa, “sconcerta quanti riconoscono l’assoluto valore della persona umana e della comunità civile volta a promuoverla e tutelarla”. Questa frase, che mi ricordo a memoria, inquadra una serie di ragioni per le quali ci pronunciammo come vescovi della regione. La sentenza della Corte costituzionale (272/2019) alla quale la Regione Emilia-Romagna, andando oltre alle sue competenze, fece riferimento per darne attuazione con un provvedimento amministrativo, non prevede il diritto al suicidio assistito, al contrario ribadisce l’impegno alla tutela della vita e al ricorso alle cure palliative che, assicurate per legge, debbono essere, anche in Regione, attuate pienamente. Pertanto, permane e urge l’impegno ad accompagnare le persone nella malattia e verso la morte con un insieme di prossimità relazionali, mediche, e facendole sentire ancora parte di una comunità che le rispetta e le onora. È in gioco, al riguardo, una cultura che sa farsi prossima alla persona fragile, a chi assiste, ed anche alla stessa costituzione democratica della nostra comunità civile».

La Cei alla luce della legge approvata in Toscana è da poco intervenuta sul tema invitando ad evitare strumentalizzazioni e sottolineando la necessità di un confronto in Parlamento. Perché è preferibile una norma nazionale?

«La tutela della vita umana dal concepimento alla sua fine naturale è parte essenziale dalla nostra società civile e da questa deriva un insieme di valori e di principi che la garantiscono. La dinamica del dono, la difesa della persona fragile, la cura e le cure verso gli ammalati, ne costituiscono un esempio, insieme all’impegno di trasmettere questi capisaldi alle giovani generazioni. Da qui la necessità di mantenere questo quadro di riferimento concretandolo pure in forme legislative. Esse possono presentarsi in modalità diverse, ad esempio, agendo su forme di depenalizzazione o introducendo elementi nuovi, ma volte sempre a rafforzare la coesione attorno ai valori condivisi che hanno nella vita e nella sua tutela la condizione fondamentale per usufruire di ogni altro bene. Una norma nazionale impedisce differenze sostanziali da regione a regione e possibili abusi e non permette di aprire la porta, come di fatto è accaduto in tanti Stati, ad una generalizzazione dell’eutanasia consentita per molteplici ragioni, anche verso i minori, le persone disabili e i carcerati. Occorre prestare molta attenzione per non lasciarsi prendere da queste derive eutanasiche. Il pericolo è reale».

Come garantire la dignità del malato ed evitare il rischio di accanimento terapeutico?

«Il malato è persona che richiede il rispetto e la tutela della dignità della sua vita. Può essere inguaribile, ma non è mai “incurabile”, nel senso che possono venire meno le terapie efficaci - ben inteso nell’accesso universalistico alle cure garantito dalla Costituzione – ma mai il prendersi cura e l’accompagnare con quell’insieme di cure relazionali, sanitarie, spirituali, sociali che prendono, in diversi casi, il nome di cure palliative. Alludendo al caldo mantello – il palium – che avvolge e riscalda. Questo impegno contempla il riconoscere la nascita e la morte come eventi naturali e in questa evidenza occorre riconoscere quando le attività terapeutiche non costituiscono più delle vere terapie, capaci di migliorare le condizioni del malato o di fare regredire il male o di bloccarlo, ma hanno soltanto lo scopo di rallentare ad ogni costo l’approssimarsi della morte, favorendo un prolungamento forzato e macchinoso della vita del paziente. In tal caso siamo davanti all’accanimento terapeutico. Ci sono criteri per definirlo – il ricorso ai mezzi ordinari o straordinari, la proporzionalità della cura – che vanno parametrati sulle situazioni specifiche, ma mai con una finalità eutanasica. Di grande rilievo, in queste situazioni, è il rapporto fiduciale instaurato tra il paziente, spesso i suoi familiari, e il personale sanitario chiamato ad agire in scienza e coscienza. Il progresso della scienza medica pone di continuo nuovi interrogativi, così pure le politiche sanitarie e il ricorso all’intelligenza artificiale, ragioni ulteriori per tenere alto e non intaccabile il valore della persona e quell’insieme di criteri che ne garantiscano la salvaguardia e la dignità».

Luca Molinari