EDITORIALE
Disinformazione in rete, vietato abbassare la guardia
La lotta alla disinformazione ha vissuto momenti decisamente migliori di questo. Si nota a livello globale un generale disimpegno da parte delle grandi piattaforme digitali, che appaiono più intente a riposizionarsi nel nuovo equilibrio di poteri a livello globale e meno attente di prima all’effettiva tutela dei diritti degli utenti. La decisione di Meta di abbandonare il fact-checking tradizionale e di sostituirlo con un sistema peer-based come le Community Notes di X si inserisce in un contesto più ampio, caratterizzato da un profondo mutamento delle politiche delle big tech. L’elezione di Donald Trump e il nuovo corso politico statunitense hanno innescato una metamorfosi delle piattaforme digitali, che sembra andare in direzione opposta rispetto alle normative europee sul contrasto alla disinformazione. Il Digital Services Act (Dsa) e il Codice di condotta sulla disinformazione delineano regole chiare per le piattaforme online che operano in Europa, imponendo loro obblighi di trasparenza, moderazione e mitigazione dei rischi sistemici. Tuttavia, il nuovo orientamento delle big tech statunitensi, ora compatte su un fronte comune, sfida apertamente queste regole, rendendo incerto il futuro della regolamentazione della Rete.
Mark Zuckerberg ha giustificato la scelta di Meta come un ritorno alle origini della libertà di espressione, sostenendo che la moderazione imposta dai fact-checker fosse diventata troppo restrittiva. Tuttavia, è difficile non vedere in questa decisione un tentativo di riallinearsi con il nuovo establishment politico statunitense.
Su questo versante la contrapposizione tra Stati Uniti ed Europa si fa sempre più evidente. Mentre la Ue cerca di rafforzare la regolamentazione per contrastare la disinformazione, le big tech americane si muovono nella direzione opposta, ostacolando l’applicazione del Dsa e minacciando una riduzione dell’influenza europea sulla gestione della Rete. Kent Walker, responsabile degli affari globali di Google, ha definito il fact-checking «inappropriato e inefficace», un’affermazione che sottolinea il cambiamento di paradigma in corso. Il passaggio al modello delle Community Notes non è solo una scelta economica – poiché il fact-checking tradizionale rappresenta un costo significativo per le piattaforme – ma anche politica: ridurre l’influenza dei governi e delle istituzioni europee nella regolamentazione dei contenuti digitali significa sottrarre all’Europa una leva di potere fondamentale nell’ecosistema informativo.
Il Dsa, entrato in vigore nel 2023, impone alle piattaforme obblighi precisi: garantire trasparenza sugli algoritmi, prevenire la diffusione di contenuti ingannevoli e collaborare con enti certificati per contrastare la disinformazione. Meta, Google e X, però, stanno scegliendo di non rispettare più questi impegni. Il caso di X è emblematico: dopo l’acquisizione da parte di Elon Musk, la piattaforma ha abbandonato la moderazione tradizionale, introducendo il sistema delle Community Notes, nel quale gli utenti stessi valutano la veridicità delle informazioni. Ora Zuckerberg vuole seguire la stessa strada, nonostante i dati dimostrino che il fact-checking ha avuto un impatto concreto sulla riduzione della disinformazione. La decisione di smantellare questo sistema, quindi, non appare giustificata da ragioni di efficacia, ma piuttosto da una strategia politica ed economica.
Un altro elemento preoccupante è il nuovo programma di monetizzazione per i creator introdotto da Meta, che premia i contenuti virali. Questo sistema incentiva la produzione di contenuti sensazionalistici, spesso a scapito dell’accuratezza e della veridicità. Secondo un’inchiesta della testata investigativa ProPublica, esistono almeno 95 pagine Facebook che pubblicano regolarmente notizie false per ottenere maggiore engagement, raggiungendo un pubblico di oltre 7,7 milioni di utenti. In passato, i fact-checker avevano il potere di limitare la monetizzazione di questi contenuti, ma ora, con la riduzione della moderazione, il rischio è che la disinformazione diventi ancora più redditizia e si diffonda su scala ancora maggiore.
L’Europa, dal canto suo, ha dimostrato di voler reagire. La Commissione ha aperto un’indagine su X nel 2023 per verificare la conformità del sistema di Community Notes al Dsa, e a maggio 2024 ha avviato un procedimento analogo contro Meta. Se si accerterà che la rimozione del fact-checking aumenta i rischi sistemici per la libertà di espressione e informazione, la piattaforma potrebbe subire sanzioni fino al 6% del fatturato annuo globale. Tuttavia, la reale capacità dell’Europa di far rispettare queste regole è incerta, considerando la dipendenza tecnologica della Ue dalle aziende statunitensi. La maggior parte delle infrastrutture digitali – dai social network ai cavi sottomarini che trasmettono i dati – è sotto il controllo di colossi americani come Google e Starlink di Elon Musk. Ciò rende difficile per la Ue imporre le proprie norme senza scatenare un conflitto commerciale con gli Stati Uniti.
Eppure una possibile risposta potrebbe essere l’introduzione di una web tax più incisiva e di nuove regole fiscali per riequilibrare il mercato, colpendo economicamente le piattaforme che non rispettano le norme europee, anche come parziale risposta alla politica dei dazi intrapresa da Trump. Tuttavia, qualsiasi iniziativa in questa direzione richiederebbe una compattezza politica che oggi appare difficile da raggiungere.
Al di là delle questioni regolatorie, rimane un interrogativo più profondo: il fact-checking è davvero la soluzione al problema della disinformazione? Se nonostante le iniziative adottate da Meta negli ultimi anni la diffusione di fake news è rimasta così elevata, forse il problema è più strutturale. La velocità con cui le informazioni si diffondono sui social rende difficile un controllo efficace, e la crescente polarizzazione del dibattito pubblico spinge gli utenti a credere solo alle notizie che confermano le proprie opinioni. Forse, più che delegare la verifica ai fact-checker, bisognerebbe investire di più nell’educazione digitale, nella trasparenza degli algoritmi e nel rafforzamento del giornalismo indipendente. Non è un caso che l’Ue abbia recentemente approvato l’European Media Freedom Act (Emfa), un Regolamento che punta a garantire l’indipendenza dei media tradizionali, riconoscendoli come baluardi della democrazia.
In un’epoca in cui la disinformazione è diventata una vera e propria arma geopolitica, non possiamo permetterci di lasciare il controllo dell’informazione interamente nelle mani delle big tech. I social network non sono testate giornalistiche: il loro obiettivo è intrattenere, attirare utenti e generare profitti, spesso polarizzando il dibattito pubblico. Il rischio, se lasciamo che siano solo gli algoritmi e le dinamiche di engagement a decidere quali contenuti diffondere, è quello di ritrovarci in un panorama informativo sempre più frammentato e manipolabile. Siamo all’inizio di una nuova fase della battaglia per il controllo dell’informazione online: la domanda è se l’Europa saprà rispondere con la forza necessaria o se dovrà rassegnarsi a subire le decisioni prese dall’altra parte dell’Oceano.