La causa
Trasfusione infetta, 16 anni per gli interessi dell'indennizzo
Per contagiarla e condurla alla morte dopo una dozzina d'anni bastò una trasfusione di sangue infetto all'ospedale. Per arrivare ad avere fino in fondo giustizia, i suoi familiari hanno avuto bisogno di un infinito numero di «trasfusioni» di pazienza. Sedici anni è durata la loro causa, prima che dal ministero della Salute si vedessero corrispondere anche i dovuti interessi e la rivalutazione monetaria sulla somma ricevuta come indennizzo. Un caso che potrebbe riguardare da vicino anche tanti altri, se si pensa a quanti hanno subito un destino analogo: in Italia e anche nella nostra provincia. A sottolinearlo è l'avvocato Paolo Buzzi, che ha seguito la causa con i colleghi di studio Francesca Surano e Stefano Molinari. «L'esito positivo della vicenda - sottolinea il legale - dà speranza a chi ha subito un pregiudizio per causa di trasfusioni infette anche in anni precedenti».
È negli anni Ottanta del secolo scorso che affondano le premesse (e le cause) di questa storia di malaburocrazia dopo essere stata di malasanità. Maria (chiameremo così la signora, con un nome di fantasia), allora settantenne, durante un ricovero in ospedale dovette sottoporsi a una trasfusione di sangue e di plasma. Trascorso un po' di tempo, cominciò a sentirsi poco bene e dalle analisi risultò che aveva contratto il virus dell'epatite C. Sul contagio ci furono pochi dubbi fin da subito: era avvenuto in seguito alla trasfusione. La pensionata combatté contro l'epatite fino al 2002, quando alla fine morì 82enne.
Fu a quel punto che cominciò l'odissea dei familiari. Forti della legge 210/1992, varata ad hoc per accogliere le istanze dei tanti italiani che avevano subito la stessa sorte di Maria, gli eredi fecero causa al Ministero. Il problema di somministrazione di materiale infetto ha avuto negli anni passati notevole rilevanza sanitaria, tanto che in conformità a norme vigenti fin dal 1958, di recente la Suprema corte di Cassazione ha stabilito che il ministero ha l’obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni sia privo di virus e che in caso di danni causati da infezioni lo stesso ministero sia sempre responsabile per inosservanza colposa dei doveri istituzionali di vigilanza.
Sul fatto che gli eredi della signora avessero diritto all'indennizzo riconosciuto ai soggetti danneggiati in modo irreversibile da vaccinazioni, trasfusioni e somministrazione di emoderivati infetti c'era poco da discutere. Sarebbe stata questione di tempo, ma alla fine nel 2009, accertata a livello ufficiale la sussistenza del nesso di causalità tra la trasfusione e l'infezione da epatite C, il ministero accolse il ricorso dei familiari della pensionata liquidando un assegno una tantum da 78mila euro (cifra stabilita sulla base dell'età della vittima e del tempo trascorso da malata), determinando l'abbandono del giudizio.
La sentenza tuttavia non soddisfò fino in fondo i familiari. Dal ministero si aspettavano ancora una cifra non proprio trascurabile. L'indennizzo era infatti stato versato nel novembre del 2009, ben tre anni dopo la loro richiesta: mancava il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione monetaria da ritardo nell'erogazione. Lo studio degli avvocati Buzzi, Surano e Molinari, riuscì nel marzo del 2011 a ottenere dal giudice di pace la condanna del ministero della Salute (al quale toccò pure la corresponsione delle spese di consulenza tecnica) anche al pagamento dei 9mila euro mancanti. Avrebbe dovuto essere la conclusione di questa logorante. Avrebbe, già: ma non fu così.
Da allora solo oggi se ne è venuto a capo. Ci sono voluti tutti questi anni, durante i quali l'azione esecutiva si è protratta con precetti e pignoramenti, perché il ministero saldasse fino all'ultimo euro il proprio debito con i familiari di Maria.
rob.lon.