Tutta Parma
Ercole Manfredi, la moglie Taide e gli otto figli: ritratto di un poeta e spirito libero
«Dedlà da l’acua» è, o meglio era, un variopinto mosaico di parmigianità le cui tessere presentavano caratteristiche diverse. Ossia, erano incarnate da personaggi illustri e meno illustri, impegnati in politica, nel sociale, nel commercio, nella pittura, nella musica ed anche nella poesia. Basti pensare che i maggiori poeti dialettali sono nati in quel piccolo mondo chiamato Oltretorrente: Renzo Pezzani, Gigén Vicini, Alfredo Zerbini, Fausto Bertozzi e tanti altri. Poeti di valore, ma «dedlà da l’acua» diede i natali anche personaggi atipici, sempre nel campo della poesia. Atipici, ma non per questo meno apprezzabili per il loro estro ed il loro impegno.
Ercole Manfredi fu uno di questi personaggi oltretorrentini. Soprannominato Ercolén al ribél, Manfredi, scomparso il giorno dell’Immacolata, l’8 dicembre 1966, era nato in via Imbriani il 2 gennaio 1874. In gioventù aveva lavorato come commesso nei migliori negozi di confezioni della città. Si sposò con Taide Balestrieri, moglie esemplare e mamma eccellente originaria di Polesine Parmense: un donna del Po. Dal matrimonio tra Ercolén e Taide nacquero ben 8 figli di cui uno, Opilio, emigrò negli Stati Uniti e divenne titolare di un avviatissimo ristorante, Press Box, di cui la Gazzetta di Parma diede spesso notizia. Ercole era innamoratissimo della sua Parma e del suo Regio che lo aveva visto sempre in piccionaia insieme a loggionisti di razza come Gigètt Mistrali, Claudio Mendogni, Nicandro Gelati e tanti altri. Fu un «poeta di strada», Ercole, uno di quelli come il buon Bruno Cassi («Temilaluce») che scriveva con il vezzo di vergare su fogli di carta i suoi stati d’animo per consegnarli alla gente. Infatti, anche «Ercolén» , aveva il vezzo di scrivere versi che poi cedeva a qualche medicante in piazza della Steccata che gli faceva da altoparlante leggendoli ad alta voce tra il pubblico.
Erano spontanee anche se, a volte, sgrammaticate le poesie di Manfredi (giunto sino alla seconda elementare). In compenso fu uno spirito libero di animo generosissimo e, dell’Oltretorrente, visse tutte le vicissitudini: dai grandi scioperi, alle barricate, all’apostolato di carità di Padre Lino, alla nascita dei primi valorosi circoli oltretorrentini come l’«Inzani», fondato nel primo dopoguerra da Vincenzo Greci in una stanza di piazzale Inzani, esattamente «in-t-la ca’ ädla Jòne », realtà alla quale «Ercolén» è stato molto legato fino all’ultimo. Oltre la poesia, anche Dante Alighieri fu una delle grandi passioni del «ribél», infatti, una copia della Divina Commedia non mancava mai sul suo comodino sia a casa che quando fu ospite del «Romanén». Tra le sue opere principali: «Diana teatrale», una fine satira sulla passione dei parmigiani per la lirica, «Al Portón äd San Làzor» e «Una grossa stufa proletaria», fantastico sogno, di uno sconcertante candore d’animo, secondo cui tutti i poveri di Parma sarebbero stati scaldati da una gigantesca stufa di marmo: il Battistero. I versi di Ercole non sono pezzi d’arte paragonabili a quelli dei grandi aedi del dialetto parmigiano. Ciò sia ben chiaro. Sono versi intrisi di grande umanità ma, soprattutto, di quella delicatezza che questo «pramzàn dal sas» ha sempre manifestato nella sua vita di persona libera. «Forse perché - come scrisse Achille Mezzadri in un bellissimo articolo - dei “bórogh dedlà da l’acua” aveva comunque respirato quell’aria di ribellione alle ingiustizie che, a tratti, si respira anche in qualche sua poesia». Alcuni anni fa la Famija Pramzana, alla presenza di molti aedi della parmigianità, dedicò un omaggio a «Ercolén» con la presentazione di un libro che raccolse tutte le sue poesie in vernacolo. Un libro reso materialmente possibile dal suo «anvodén», (il nipote più piccolo), Valter Manfredi, il suo «Valterino», che poi divenne uno stimato imprenditore.
Le poesie di Ercolén al ribél, questo il titolo del libro, in quell’occasione, furono declamate da alcuni fini dicitori tra i quali Enrico Maletti, Luigi Frigeri ed Ermes Ghirardi. Il professor Guido Erluison nella prefazione del libro tratteggia fedelmente la figura del poeta di via Imbriani. «Era un uomo semplice che ha trascorso la sua vita in modo non convenzionale pur esercitando il suo lavoro con grande capacità ed eleganza. Ma il genio che lo animava era molto diverso da quello della gente comune. Vi era in lui una forza che lo spingeva in alto e che lo faceva partecipare a tutte le manifestazioni dello spirito. In questo era figlio della sua città e, soprattutto, aveva in sé tutta la forza dell’Oltretorrente ricco di sentimenti e di passioni. Ercole fu una voce inconfondibile, tra le mille voci, degli antichi borghi di Parma».
Valter Manfredi ha un bel ricordo del nonno. «Di lui - dice - ricordo la dolcezza. Ero molto piccolo quando vivevo con i miei genitori e i miei nonni in via Imbriani. Ercolén mi portava a spasso ed era molto amorevole. Mi voleva un bene dall’anima. Mi ricordo che fumava la pipa o il sigaro alternandoli. Fu lui ad accompagnarmi il primo giorno d’asilo. I miei genitori erano al lavoro e toccò a lui. Una scena straziante che non ho mai dimenticato. Per me fu uno strappo traumatico: la prima volta che lasciavo la mia casa. Il nonno mi aiutò molto a superare quel momento per me drammatico. Nel quartiere era amato da tutti, usciva alla mattina molto presto ed era uno dei primi ad andare in edicola a comprare la Gazzetta di Parma. Gli piaceva documentarsi».
Già, Ercolén al ribél, il «poeta di strada» del «nòstor dedlà da l’acua», uno di quei personaggi dei vecchi borghi sia di qua che di là dal torrente che profumavano «äd vécia äd caval», «sofrìtt» ed umanità. Stiamo parlando di una Parma sparita sia come arredo urbano, sia come stile di vita e sensibilità della gente. Proprio un altro mondo dove la lingua ufficiale era il «djalètt pramzàn». «Forse un certo mattino - scrisse Giorgio Torelli - il dialetto svaporerà. Si dice che con ci saranno più bocche capaci di sagomarlo, né personaggi in grado di esprimersi nel più sfarzoso dei modi con parole mai svigorite. È per questo, urgentemente per questo, che il lascito degli Zerbini e dei Pezzani, di loro e di quanti hanno scritto nel nostro parlarci in chiave fraterna, risulta prezioso quanto una deposizione sulla nostra significativa identità».
Ercole Manfredi, intellettuale senza saperlo, filosofo senza laurea, ha trascorso la sua vita pensando alla precarietà della condizione umana, all’inutilità di farci il fiato grosso per rincorre futilità, alle comicità degli sforzi che compiamo per distinguerci, per rappresentarci quali non siamo, per apparire al posto di essere. Ercolén, tutte queste cose, le aveva capite come aveva capito bene che la nostra parlata popolare era l’argenteria di famiglia del nostro essere parmigiani. Ed allora, questa argenteria, che è il nostro dialetto, d’ogni tanto lucidiamola, mettiamola in mostra nel salotto buono, adiamone fieri ed orgogliosi, cerchiamo di moderare un po' questo linguaggio esterofilo freddo e a volte, molte volte, antipatico ed insegniamo ai nostri figli e ai nostri nipoti a parlare la lingua dei loro padri. Forse, capirebbero di più come è fatta davvero la vita.