Intervista

Il basso Marco Spotti: «Dire dei “no” può allungare la carriera». Sabato riceverà il «Premio Federici»

Mara Pedrabissi

Vive un momento di serenità e appagamento e la sua voce - per un cantante più che mai specchio dell'anima - lo riflette. Marco Spotti, basso di eleganza, 61 anni portanti d'incanto («Nessun patto col diavolo - scherza - Era così anche mamma»), sull'onda di una lunga carriera internazionale, ha il carnet fitto di impegni. Concluse sabato le recite nei panni di Don Basilio («Mi sono divertito molto, un Don Basilio buffo, caricaturale») nel rossinano «Barbiere» al Lirico di Cagliari, deve partire per Bari per le prove di «The rape of Lucretia» di Britten al debutto il 18 aprile, direttore Jordi Bernàcer, regia di Yannis Kokkos, nuova produzione del Petruzzelli: «Mi appassiona e in questi ultimi giorni sto studiando veramente tanto. Siamo in una concezione novecentesca e non più del melodramma, però più lo studio e più ne vedo la bellezza», dice.

In mezzo ci sarà una tappa nella sua Parma: sabato alle 20.30 alla Corale Verdi riceverà il Premio «Franco Federici» istituito alla memoria del basso parmigiano (1938-2013) con grande dedizione anche della moglie Anna Bartoli Federici. L'occasione sarà incorniciata da un concerto con le voci di Clarissa Costanzo, Jorge Martinez e, ovviamente, Marco Spotti; Claudia Rondelli al pianoforte, presentatore Paolo Zoppi (ingresso libero).

Una carriera internazionale. Però prendere un premio “a casa”, come è accaduto anche con il «Verdi d'oro», è un'emozione diversa...

«Proprio! Poi ricordiamo Franco Federici, artista che ho sempre apprezzato, fin da quando iniziai a cantare, per dieci anni nel Coro, della Corale Verdi poi del Regio, prima di debuttare da solista. Si facevano tantissimi concerti allora, Franco c'era sempre e metteva sempre in scaletta Zaccaria dal Nabucco; aveva una voce molto duttile, per essere un basso andava benissimo sugli acuti, reggeva la tessitura; è stato il primo Zaccaria che ho sentito dal vivo. Per me e per Michele Pertusi è stato il basso di riferimento».

Una cosa vi accomuna: la cifra dell'eleganza.

«Oh che bello! Sì, me lo dicono ma non so se sia così. Per tanti anni non sono mai stato soddisfatto di me, collocavo l'asticella sempre più in alto di quello cui potevo aspirare. Ci ho lavorato tanto e ci lavoro ancora: mi piace pensare che anche la vocalità del basso debba essere di una certa eleganza e non sguaiata. Ecco, questo Franco l'aveva sicuramente».

Da solista ha debuttato nel gennaio 1998. Nel 2028 saranno 30 anni di carriera, escludendo i dieci anni di Coro. Com'è cambiata la sua vocalità? Che ruoli faceva all'inizio e quali si sente ora? E soprattutto come si costruisce una carriera longeva?

«Non è semplice. Ma parto dalla prima domanda: sono nato così artisticamente, con una voce che aveva già una certa di potenza nonostante fosse immatura. Immaturo era anch'io, nel senso che anche psicologicamente devi crescere per affrontare il palcoscenico e certi ruoli. Ormai si affidano ai giovani anche ruoli di padri o di figure impegnative: puoi essere bravissimo a interpretarli ma faresti meglio se avessi quell'esperienza che ti dà solo la vita stessa. Adesso io mi sento molto più a mio agio: cose che mi sembravano molto difficili, ora mi risultano semplici. Però, se posso aggiungere, ho detto tanti “no”. Per esempio, un “no” che ho detto sempre e, a questo punto lo dirò sempre, è per Zaccaria nel Nabucco. Da giovane perché non ero pronto e non volevo bruciarmi; adesso - per come è stato portato in alto il “la” - perché sottoporrei la mia voce a uno stress notevole».

Quindi una lunga carriera si costruisce anche dicendo dei “no”?

«Esatto, stando attenti alla propria maturazione vocale, all'attitudine, insomma. L'ho sempre fatto. Poi purtroppo mi sono capitati due momenti - tra l'altro avrei dovuto essere impegnato a Parma - in cui la mia voce ha dato forfait per problemi di salute, è stato in coincidenza di due momenti di sofferenza mia, anche psicologica, di preoccupazione per i miei genitori che poi sono mancati. Lì la mia voce ne ha risentito tanto. Ora ho recuperato, sono in un momento di grande serenità».

È stato diretto da grandi direttori: chi le ha dato di più?

«Ciascuno di loro ti dà qualcosa, cito Daniele Gatti perché ho molto fresco il “Falstaff” in Scala, in febbraio. Però se sono grandi direttori è perché evidentemente hanno qualcosa dentro e riescono a tirare fuori da te qualcosa di particolare».

Mara Pedrabissi