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Osterie e allegria: quando l'aperitivo era alla buona
Gli aperitivi vanno sempre più di moda. Basta guardarsi in giro verso sera per constatare come si affollano i vari locali dove i nostri giovani «fanno l'aperitivo». E qui la fantasia si sbizzarrisce in quanto tartine, panini, pizzette ed altre leccornie sfilano sui banconi e sui tavolini accompagnati da calici di vino bianco, spritz, coca cola ed altre bevande. Fortunatamente, tra i moderni aperitivi, nella nostra città, grazie ad esercenti che hanno ancora a cuore le nostre tradizioni, figurano anche tartine e panini con il «cavàl pisst» e cotechino che i giovani e i giovanissimi parmigiani dimostrano di apprezzare.
L'aperitivo, ormai, è divenuto una sorta di status symbol, un modo per trovarsi in centro, fare un paio di «vasche», mettere qualcosa sotto i denti, farsi un bicchiere o due e poi decidere dove andare a trascorrere la serata. Il boom degli «apericena» è abbastanza recente. Negli anni Sessanta, per i giovani d'allora, andava di moda lo spaghettino della mezzanotte o il risottino, sempre notturno, nelle sale da ballo. I tempi cambiano e, con loro, anche le mode, gli usi ed i gusti.
Ora le tartine dell'aperitivo sono appetitosissime, preparate con grande cura. Ad esempio, non mancano le tartine con pesce crudo, scampi, salmone, patè vari. Insomma, robe da «MasterChef». Ma com'erano gli aperitivi dei nostri nonni? L'aperitivo, se così si può chiamare, dei nostri vecchi avveniva rigorosamente all'interno o nel cortile di un'osteria. Ovviamente si andava a vino. Del gran vino bianco o rosso ma pur sempre vino. Qualcuno aveva iniziato la moda del «bersagliere», ossia un bicchiere di vino bianco frizzante «sporcato» da un goccio di Campari. Ma qui andiamo già sull'aperitivo più sofisticato. Il vino, intanto, era gustato prevalentemente negli «scudlén» bianchi poiché il bevitore vero, nel fondo di questi scodellini, se contenevano lambrusco, voleva che il vino lasciasse la «màcia». Questo significava che il vino era generoso e che l'oste non lo aveva annacquato.
Accompagnavano le bevute, non certo tartine e panini o altre delicate delizie, ma uova sode che venivano trangugiate con una bella spruzzata di sale, «marlùss frìtt» che non doveva mai mancare in una terrina coperta da un «boràs» posta sul banco, polpette, rigorosamente «äd cavàl», fatte con patata, prezzemolo e tanto aglio, polenta fritta, «pevrón e sigòlli machi» e, nelle osterie di montagna, anche patate cotte sotto la cenere dal camino. A volte poteva anche comparire (nelle osterie della Bassa) un cestino di «pèss putàna» fritto, tortafritta, «pan brostolì» spalmato «äd gras pisst». Ma nel giorno di festa, l'aperitivo che andava maggiormente nelle osterie era una tazza di brodo di terza bollente rinforzata con un goccio e, forse più di un goccio, di gagliardo vino rosso.
Per i bevitori più accaniti, che sostavano lungo tempo in osteria per bere e giocare a carte, gli osti d'una volta, sia dalle nostre parti, ma in quasi tutta la Padania, avevano inventato un incentivo al consumo del vino, ossia un qualcosa che inducesse la gente a bere: «al pan brostolì». Il pane abbrustolito era molto diffuso anche nelle case in quanto le «rezdóre» lo facevano abbrustolire nel forno. Si trattava di pane raffermo e quindi destinato a zuppe che, però, poteva ritrovare una sua dignità se lo si faceva biscottare. Infatti, in questa veste, non solo poteva servire per le zuppe, ma anche per accompagnare formaggi duri e teneri, lardo, salume, verdure e anche frutta come noci, mele, pere e anche anguria. Il «pan brostolì pramzàn» diventa «panbiscotto» appena oltrepassato il Po. Infatti nel Cremonese, Mantovano e nel Polesine esiste un’antichissima tradizione di questo valoroso cibo povero ancor oggi prodotto in alcuni panifici poiché le «rezdóre» moderne non hanno tempo da perdere e devono fare dell'altro.
E le merendine di ieri per i bambini com'erano? Le martellanti pubblicità televisive, tra le miriadi di prodotti che offrono, ci consentono di spaziare anche nell’ampio ed articolato universo delle merendine studiate per tutti i gusti e per tutte le età. Le tanto amate merendine che oggi i bambini sgranocchiano dinanzi a tv e a videogiochi, altro non sono che le lontane, anzi lontanissime, parenti di quelle molto più spartane e più casalinghe di ieri, sicuramente meno eleganti come confezione e certamente meno affascinanti dal punto di vista mediatico. Innanzitutto le dispensatrici delle merende di un tempo erano le mamme e le nonne e, quindi, provenivano dalla dispensa di casa, oppure dal fornaio o dalla lattaia. Fatto sta che la scelta dei bambini di ieri si poteva posare su non molte qualità di prodotti ma, quei pochi, erano sicuramente di grande qualità ed altrettanta genuinità.
Nella nostra città, negli anni Cinquanta-Sessanta, esistevano veri propri «templi» delle merendine. Si partiva dagli «sfoglini» al burro della panetteria Garibotto di strada XXII Luglio dinanzi alla chiesa di San Quintino e poi le «veneziane», le «pesche» rosse come pomodori e imperlate di zucchero della latteria dell'Anita e di Ezio in borgo Giacomo, quindi, i panini all’uva, le pagnottine da 15 lire, i «ciprini» dalla forma vagamente orientaleggiante a mezza luna. Per non parlare del «cremifrutto» dell'Althea (mattonelline di marmellata alla ciliegia, amarena o albicocca) particolarmente care a chi collezionava francobolli in quanto, sotto l’etichetta, era custodito un raro francobollo. Molto apprezzati dai ragazzi di ieri anche i cremini Ferrero a forma rettangolare avvolti nella stagnola dorata con la figurina a colori dei vari cartoon disneyani, le creme contenute in scodellini di plastica multicolori e il «salame» di cioccolata bianca e alla nocciola.
Mentre invece le merende autarchiche erano confezionate rigorosamente in casa e prevedevano, per lo più, pane con burro e zucchero o marmellata, pane e conserva, pane olio e sale, pane e salsa verde con aglio, pane e «gras pisst». Anche la frutta poteva rappresentare un buon companatico: mele, pere, noci. In campagna, ad esempio, pane e noci evidentemente era considerata una merenda pregiata. Fa testo in proposito il detto: «pan e nóz magnär da spóz».
I ragazzi di ieri, comunque, non avevano una gran scelta e certe merendine al cocco, ai frutti esotici oppure alle più svariate qualità di cioccolato e latte non erano neppure pensabili. Sempre e comunque casalinghe erano anche le merende di stagione come il «bosilàn» (ciambella) fatta prevalentemente in primavera con le uova fresche o il sugo d’uva (al «sugh») nel periodo della vendemmia, i pomodori di campo e le more di gelso («mór») in estate e, in inverno, i ceci caldi del buon Cero che, con il suo triciclo, solitamente, si piazzava, al mattino, dinanzi alle scuole, mentre al pomeriggio lo si poteva incontrare sotto gli ippocastani dello Stradone dove stazionavano pure due castagnine: una, all’angolo con strada XXII Luglio, e l’altra a barriera Farini. Altra merenda dolce era rappresentata dai «rotti» del biscottificio Salvini in via Pezzana, dagli «spumini» della pasticceria Vivaldi di strada XXII Luglio oppure, nel tempo di Carnevale, dalle chiacchiere, «canif», sgonfietti e tortelli con ripieno di amaretti o di marmellata brusca. Un' altra merendina dolce, che per un periodo di tempo ebbe moltissimi seguaci, fu l’«Africano». Si trattava di un cilindretto di pasta bianca collosa, fatta con chiaro d’uovo e zucchero, interamente ricoperto con un sottilissimo velo di cioccolato fondente. In campagna ed in montagna le merende erano ancor più spartane ed allora non era raro che ai bambini fossero propinati: un bella fetta di polenta «sorda» (e cioè senza niente), un pezzo di pane strofinato con aglio o una crosta di formaggio solo quando, dopo tante insistenze, i ragazzi riuscivano a convincere le «rezdóre» in quanto, il suo destino, era di finire dentro il minestrone.
Nonostante le merende di ieri avessero meno valore energetico e nutrizionale, non fossero confezionate in modo così perfetto ed igienico come ora, non prevedessero tante varietà di gusti, non si presentassero così bene dal punto di vista estetico, non contemplassero un seguito di regalini o sorpresine, riuscirono comunque a far felici intere generazioni di ragazzi e ragazze i quali, invece di sgranocchiarle annoiatamente dinanzi alla tv, le divoravano all’aria aperta vivendo una magica stagione della loro vita non certamente scandita da videogiochi, cellulari, social o robe peggiori.
Lorenzo Sartorio