Intervista

Aurora Vannucci: «Il mio racconto in finale al Campiello giovani»

Anna Pinazzi

Un personaggio fatto di linee, colori, sfumature: un disegno. Che parla dritto al cuore di un bambino, trasformandosi così, tra semplicità e affetto, in «Pier», un vero amico. «Un posto nel mondo» in cui rifugiarsi e sentirsi compresi. La storia - così originale - è stata scritta da Aurora Vannucci, una studentessa parmigiana di 19 anni (è diplomata al liceo classico Romagnosi e ora studia Lettere nel nostro Ateneo), che ieri è diventata una dei cinque finalisti del Premio Campiello giovani. Era in lizza insieme a un'altra giovane autrice parmigiana, Elena Mora, che ha gareggiato con il suo racconto «Parigi non finisce mai», che le ha permesso di arrivare tra i 12 semifinalisti, per un soffio non ha avuto accesso alla finale.

«È andata benissimo - è la prima cosa che dice Aurora, ancora in macchina di ritorno dall'evento veronese -. È stato un momento molto bello, ho avuto per tutto il tempo delle sensazioni, molto positive».

Il suo racconto è «Un posto nel mondo», ben fuori dal comune, però. Uno sguardo inedito sulla realtà e sulla malattia: «Il narratore è il disegno di un bambino che soffre di fibrosi cistica - spiega l'autrice, che ha già vinto diversi premi e pubblicato diversi libri -. Nessuno prende seriamente il bambino, tranne il suo disegno, che non lo considera per la sua malattia, ma per quello che lui è davvero». La comprensione passa per la fantasia. Così come l'accettazione. Le linee e i colori parlano, abbracciano.

Scienza ed emotività, in questo scritto, vanno di pari passo: «Ho dovuto studiare e informarmi per poter scrivere della fibrosi cistica», racconta Aurora. Dall'altra parte, però, c'è sempre stato l'impulso, la penna che si muove libera: «Scrivo sempre di getto, non mi preparo molti schemi - rivela la giovane scrittrice -: vado molto di pancia quando mi trovo davanti la pagina bianca, contrariamente alle altre cose che faccio».

Un filo rosso unisce la sua scrittura: «Mi piace parlare di storie difficili in modo comprensibile, per tutti, ma con uno sguardo diverso - sottolinea la 19enne -: anche questo racconto mi è venuto di getto». Tra le mura della sua camera, la mente vola: «L'ho scritto davvero in poco tempo perchè mi sono lasciata andare e trasportare - dice -: è come se i personaggi mi avessero guidato». Una pausa e aggiunge: «Perché gli scrittori penso non debbano governare i loro personaggi, ma lasciarsi guidare da loro».

Per Aurora, infatti, la scrittura è uno specchio: privato e sociale insieme. Le sue storie - tantissime scritte finora, come i libri pubblicati: ben cinque - sono parentesi private e collettive: parlando di estraniazione, di malattia, di solitudine, di fantasia immortala il nostro tempo. La vita del bambino «vero», Jacopo e del suo amico disegnato, Pier, è un grido contro le solitudini. Un abbraccio alle fragilità. Il messaggio che Aurora vuole trasmettere, in generale, è questo: «Un messaggio positivo, di libertà - sottolinea -, di poter capire se stessi e gli altri attraverso le parole». Così ecco che Jacopo e Pier non sono solo personaggi, ma avamposti di un altrove salvifico. Che non sia, quel mondo fantastico di linee e colori, «più bello di quello reale».