Parma per il Senegal

Bineta: «Quelle bimbe salvate»

Anna Maria Ferrari

Mostra con orgoglio un vasetto di marmellata di baobab: «L'hanno prodotto le donne del nostro progetto, in Senegal». Si emoziona davanti a una foto di ragazze a scuola: «Studiare le salva dalla schiavitù femminile».

Bineta Gueye, presidentessa della ong Feeda (Femme, education, eau et développement en Afrique), bella come una modella seppur esausta - è arrivata da poco dal Senegal -, è fiera di mostrare alla «sua» Parma i risultati del progetto che ha riscattato, in circa vent'anni, oltre duemila donne della zona rurale di Pire, Africa profonda, fame e terra arida. Donne che erano analfabete e dipendenti in tutto e per tutto dagli uomini, ma che, oggi, hanno voce, diritti e indipendenza economica. Per questo Pire rappresenta un'esperienza modello da studiare nelle università.

Bineta e Parma, con l'associazione Mani e il Comune - l'assessorato alla Cooperazione internazionale, guidato da Daria Jacopozzi, per il progetto CO.di.re. -, assieme a Zonta club international, sono state la pietra angolare del cambiamento.

Così come Lara Araldi, psicologa collecchiese, scomparsa nel 2008, che ha continuato a metterci il cuore e la grinta anche da lassù: i suoi genitori hanno dato vita a un premio in nome della figlia, un premio che facesse correre la sua testimonianza sulle gambe delle ragazzine salvate da matrimoni precoci e violenze. «Les filles de Lara», così loro si fanno chiamare, con fierezza: il premio Araldi, dal 2008, copre tutte le spese di istruzione - anche la mensa, i trasporti, i libri e i quaderni, i prodotti per l'igiene -, accompagnando le bimbe dalle elementari al diploma. Con un patto chiaro: «Pas de marriage avant le bac», «niente matrimonio prima della maturità». Parma, a Pire, illumina gli sguardi: perché la «squadra» di Comune, Mani, con la presidentessa Carlotta Valesi e l'attivissima socia (ex presidente) Matilde Marchesini, traduttrice dal francese per Bineta, ha fatto del bene vero, concreto, che si misura sul sorriso di quelle dottoresse, ingegnere, agronome, imprenditrici, bimbe sottratte a un destino buio già scritto. Che adesso splende di luce.

Bineta, musulmana, turbante nero e sguardo d'ebano, è il ponte tra Parma e il Senegal. È lei la capofila del cambiamento: «Il mio riscatto? Lo devo a mia madre. Era analfabeta, mai andata a scuola: “Se vuoi uscire dalla povertà, devi studiare”. A 13 anni sono andata a Dakkar, perché a Pire esisteva solo la scuola primaria. Mi sono laureata in storia e geografia, poi mi sono trasferita a Parigi, per un dottorato in Pratiche sociali e sviluppo. Contemporaneamente ho seguito un corso di Economia sociale alla Sorbona». Avrebbe avuto la possibilità di sposarsi alla fine del liceo «con un cugino di parte paterna. Mi madre mi disse di non farlo, “altrimenti smetti di studiare”. Ho avuto il coraggio di dire “no”, sono stata minacciata. Allora era una situazione comune, dopo il diploma le ragazze venivano “date” a un uomo. Ma oggi a Pire non è più così».

Di cooperazione internazionale ha iniziato ad occuparsi nel 1998, «quando il prof della Sorbona mi mandò in Senegal per uno stage. Sapevo che lì sarebbe stata la mia vita. Voglio lavorare e vivere dove sono nata». A piccoli passi, negli anni, ha costruito una rivoluzione: «Nel 2005, su invito della Provincia, venni a Parma a parlare di agricoltura e sovranità alimentare. Ne è nato un legame profondo sfociato in tanti progetti, ma sempre nel solco dell'attenzione al mondo femminile». Da schiave in casa loro le donne di Pire sono diventate protagoniste: «Abbiamo avviato un progetto di microcredito sociale, con regole chiare e condivise pubblicamente da tutti, che ha consentito alle donne di creare piccoli allevamenti, orti, laboratori. Abbiamo formato le formatrici e ci siamo sempre posti in ascolto delle persone. Tutto quello che abbiamo realizzato è stato deciso assieme. Lavoriamo su un sistema integrato: diritto alla salute, all'istruzione, al reddito». È la chiave che apre la porta della speranza: «Mi viene in mente la storia di una contadina proprietaria di alcuni campi: non riusciva a coltivarli per mancanza di fondi, acqua e competenze e aveva deciso di salire su un barcone per l'Europa. Con il nostro progetto di riforestazione e agricoltura sostenibile, è rimasta. Oggi è una volontaria dell'associazione». «L'immigrazione - conclude - è frutto di disperazione e mancanza di prospettive. Formazione e istruzione aprono al futuro».

Anna Maria Ferrari