Lutto

Maria Grazia Brozzi, la pasionaria del loggione

Giulio A. Bocchi

Con Maria Grazia Brozzi, scomparsa giovedì all'improvviso, se ne è andata la parte più coloristica e movimentata del loggione che per tutta la sua storia ha dato più di una preoccupazione anche i grandi nomi che sono venuti ad esibirsi in quello che a prima vista, da fuori, avrebbe potuto considerarsi un teatro di provincia.

Dal prossimo 26 settembre, quando inizierà a tutti gli effetti il Festival Verdi con «Otello», l’ultimo piano aperto al pubblico del Teatro Regio sarà quindi un po’ meno «loggione» e un po’ più «galleria».

Alcuni consideravano Maria Grazia «una voce dal cielo» (come il personaggio che in «Don Carlo» si ascolta anche se non appare in scena), altri, probabilmente più pragmatici, «la voce che uccide» per le invettive che scagliava dall’alto: in ogni caso, molti, tra i quali Alberto Mattioli, ritenevano che in locandina dovesse apparire anche il suo nome per quanto partecipava alla recita.

«Coloristica» e «movimentata» non devono andare per forza di pari passo con «opportuna» e «giustificata» e, infatti, negli ultimi anni attorno a lei si era creata una certa bolla di insofferenza, scoppiata nell’ultimo «Andrea Chénier»: dopo il suo «Era migliore Cappuccilli» (rivolto a Luca Salsi dopo il bis di «Nemico della patria») i suoi vicini non avevano risposto, a una donna di 86 anni, con la stessa eleganza del baritono che aveva reagito con un aplomb invidiabile dicendo: «Sono d’accordo con lei, signora».

Secondo alcuni questa esternazione aveva un’intenzione di sprone a fare ancora meglio e che la vetta, per il cantante, non era lontana: una sorta di «botte a fin di bene» che non sono molto aderenti alle linee guida della pedagogia moderna. Tutto questo, comunque, merita di essere contestualizzato con un amore per la lirica che oggi, forse, facciamo fatica a comprendere fino in fondo.

L’opera faceva parte a tutti gli effetti dell’intrattenimento, inteso nel suo senso migliore, e chi frequentava il loggione era obbligato a farsi giorni (e anche notti) di fila in innumerevoli appelli, spesso d’inverno, per procurarsi i biglietti. È trascorsa così la vita della «Pasionaria» del loggione di Parma, al fianco del marito Ennio Fava con il quale condivideva questa passione.

Negli ultimi anni, probabilmente, i suoi bersagli principali erano i registi, o meglio gli allestimenti, che non proponevano una lettura tradizionale, o almeno rispettosa, dell’opera, tanto che molte delle sue invettive giungevano al levarsi del sipario, più che alla fine degli atti. Frequentava il Regio da quando aveva 11 anni ed è riuscita ad assistere alle recite praticamente fino alla fine.

Altri loggionisti storici come Luigi Mistrali, «Gigètt», che contrapponeva un’ironia più bonaria alla veemenza della Brozzi, non sono più riusciti a salire nel proprio appostamento e di fatto era rimasta lei come ultima custode di un loggione che ha saputo sostenere con entusiasmo tanti interpreti, ma che ha fatto paura a molti altri.

Giulio A. Bocchi