corte d'appello
Omicidio nel Cas di via Faelli, è battaglia sulla perizia psichiatrica
C'è un prima e un dopo nella vita di Rabbi Hosen, nato in Bangladesh nel 2000. Fino al 20 ottobre 2023, rispettoso delle regole e tranquillo, forse fin troppo nella sua riservatezza. Oltre quella data, invece, ombroso e imprevedibile, pronto a scambiare il proprio letto con la vasca da bagno o con il pavimento del garage o con chissà dove, intento a girovagare in casa e fuori con un coltello in tasca, per difendersi dalle sue paure. Dieci giorni durò questo periodo, per costare alla fine la vita del compagno di stanza al Cas di via Faelli, il connazionale e coetaneo Rabby Ahmed, ucciso nel sonno con due coltellate alla gola, «colpevole» di aver solo cercato di aiutarlo, provando a fare da tramite tra lui e il mondo. Lui, Hosen, non ha mai negato di averlo ucciso. Anzi. «”Avevo voglia di ammazzarlo e l'ho ammazzato” mi ha ribadito nei colloqui in carcere - racconta la psichiatra Giuseppina Paulillo -. Davanti a me, avevo un uomo vestito di bianco, quasi a volersi atteggiare a santone, che non mostrava segni di pentimento, privo di qualsiasi empatia».
Che sia stato Hosen a uccidere Ahmed al Cas di via Faelli il 30 ottobre 2023 è stato chiaro fin da subito. Più che il «chi», il processo in corso in corte d'assise, davanti alla giuria presieduta da Maurizio Boselli (giudice a latere Francesca Merli) ha l'obiettivo di stabilire il «se». È o meno imputabile, il giovane che, senza tradire resipiscenza, ha deciso di voltare le spalle alle udienze (incurante del loro svolgimento, forse per una «rimozione» totale) da oltre le sbarre della cella? Per la titolare della perizia sì. «Nei colloqui non sono emersi né deliri né dissociazioni né allucinazioni - spiega la psichiatra -. Non sto dicendo che non presenti problematiche: la sua è sì una personalità bizzarra, ma sul disturbo di personalità si è innestata una reazione abnorme psicopatica». Un borderline, quindi, che non rientra nel campo della psicosi vera e propria.
Tesi più volte contraddetta dal pm Domenico Galli. «Perché nella perizia non ha nominato gli elementi della paura?» chiede lui. «Perché nei colloqui non sono emersi» replica Giuseppina Paulillo. «Eppure, Hosen ne ha rivelate diverse. Di essere avvelenato, innanzitutto: tanto da mangiare solo dopo che il cugino aveva cominciato a farlo». È dei giorni del «dopo» che si parla. Di quel periodo da incubo, poi diventato realtà con l'omicidio, descritto da Luca Cavalca, operatore della cooperativa sociale Leone Rosso, che ospita richiedenti asilo e gestisce tra gli altri il Cas di via Faelli.
Fu Cavalca a contattare Matteo Bolsi, avvocato del reo confesso. «Ero legato sia ad Ahmed che a Hosen: oltre al lutto per la morte dell'uno, ho dovuto affrontare la perdita dell'altro» dice, nel corso del lungo esame. Cavalca racconta del calvario di quei dieci giorni, di sparizioni e ingressi al Pronto soccorso, cominciato con l'«autodenuncia» di Hosen che diceva di non essere più sé stesso da quando aveva consumato una droga non ben specificata. «Oltre alle droghe leggere di cui venni poi a sapere che era diventato dipendente. Non voleva assumere i farmaci prescritti per il suo stato. La madre lo redarguì al telefono per questo quel 30 ottobre, e lui sapeva che era in contatto con Ahmed». La generosità di quest'ultimo, deve essere stata presa per invadenza. Ma da qui a uccidere, ce ne corre. Per questo la domanda è ancora sul «se». Per ora, solo Galli ha potuto esaminare la consulente: il 4 luglio toccherà a Serena Di Michele, avvocata di parte civile del padre della vittima, Bashir, presente in aula, chiuso nel proprio silenzio di straniero. Lei si è opposta all'istanza del pm, alla quale si è invece associato Bolsi. Tra dieci giorni si saprà se sarà disposta una nuova perizia.