Ciclismo
Il fontanellatese Thomas Pesenti: «Felice del mio bronzo. E pensare che stavo per smettere...»
Vittorio Adorni oro e tricolore nel 1969 (ma anche argento nel ‘65 e bronzo nel ‘67). Claudio Torelli e Paolo Bossoni secondi rispettivamente nell’82 e nel 2007. E da domenica, nel ristretto club dei parmigiani medagliati ai campionati italiani di ciclismo su strada per professionisti, c’è anche Thomas Pesenti, fontanellatese classe ‘99 della Soudal-Quick Step. Terzo nella gara tricolore da Trieste a Gorizia vinta da Filippo Conca, uno ancor meno pronosticabile.
Pesenti, maggiore il rammarico per la vittoria sfiorata o la soddisfazione per il terzo posto?
«Devo ammettere che, a caldo, non aver vinto mi bruciava un po’. Mi ero costruito veramente una grande occasione, anzi «la» grande occasione. Una maglia così, vinta da outsider, ti può cambiare la carriera. Come succederà a Conca, penso».
A freddo, invece, qual è il bilancio?
«Già un’ora dopo la gara ero felicissimo della mia medaglia di bronzo. Penso di aver fatto una gran gara, ho dato tutto, non posso avere rimpianti. I 100 metri finali in pavè giocavano pure a sfavore di uno leggero come me. Onore a Conca, ha meritato».
Ma vi aspettavate uno Swatt Club così forte?
«Aspettarselo no, e forse nel finale abbiamo tutti un po’ sottovalutato Conca. Però hanno fatto una gara praticamente perfetta. Per fare un paragone calcistico, hanno realizzato un’impresa come quella del Leicester di Ranieri quando vinse la Premier League. Nessuno li considerava, e invece…».
Ma lei Conca lo conosceva?
«Certo, anche perché ha solo un anno più di me e vi dico che non è l’ultimo arrivato: da Under 23 ricordo che andava forte. Poi ha corso nel World Tour, facendo anche piazzamenti. Il talento c’è, ma poi ci sono mille altri fattori che possono condizionare una carriera».
Un po’ come la sua, del resto…
«Anche io ero ormai ai margini, solo un anno e mezzo fa, quando dopo due ottime stagioni alla Beltrami nessuno mi voleva. Stavo per smettere, poi è arrivato il Team Ukyo e quest’anno la Soudal-Quick Step. Questo è un ciclismo spietato: o emergi subito, o a 24 anni sei già vecchio. Ma non è giusto. Spero che questo campionato italiano insegni qualcosa».
Anche una vittoria di Pesenti, domenica, avrebbe fatto scalpore?
«Un po’ sì, perché io, non dimentichiamolo, corro per la «Devo» della Soudal-Quick Step, cioè la squadra Continental (una sorta di «Primavera» della formazione World Tour, ndr). In gara ci ho pensato, oltre che sperato: sarebbe stato clamoroso e bellissimo».
Quando ha capito che poteva essere una grande giornata?
«Sono arrivato a questo appuntamento in ottima forma, quindi ero fiducioso. Mi ero detto di non ripetere l’errore dell’anno scorso, quando fui troppo attendista e rimasi nelle retrovie. Stavolta ho «aggredito» la corsa ed è stata la mossa giusta».
In salita era Covi il più forte?
«Anche lui stava molto bene. Quando ha attaccato, sull’ultimo strappo, mi sono mosso io per andare a chiudere. Ho pensato che, se non l’avessimo fatto subito, non lo avremmo più ripreso. Insomma, ho corso per vincere, non per il piazzamento».
Anche per questo, a caldo, ha detto che, nel ciclismo, del secondo del terzo non si ricorda mai nessuno?
«Purtroppo è così. Ma devo anche riconoscere che, nell’ambiente, chi deve vedere queste prestazioni, le vede. La prestazione c’è stata. Non è una vittoria, ma questo terzo posto è comunque il miglior risultato della mia carriera. Per me è un inizio, non certo un punto d’arrivo».
Può essere la spinta finale per fare il tanto sospirato salto nel World Tour?
«Me lo auguro. Io continuo a fare del mio meglio. Domenica sera ho letto un articolo che, parlando di me, diceva «zitto, zitto è sempre lì». Ecco, io sono questo: testa bassa e pedalare, senza grandi proclami. Non sono un fenomeno, ma non ero nemmeno da buttare quando i risultati non arrivavano. Non ho mai avuto «sponsor», tutto quello che ho ottenuto è frutto di lavoro e sacrifici».
C’è anche una dedica per questo terzo posto?
«A tutti quelli che questi sacrifici li hanno visti, a volte subiti, che hanno creduto in me quando erano rimasti in pochi a farlo. Sperando, in futuro, di dedicare loro qualcosa di ancor più bello».
Alberto Dallatana