Fidenza
Majed fuori dall'inferno di Gaza dopo 18 mesi
Non c'è odio nelle sue parole, ma gratitudine e dolore. E quest'ultimo non solo per il passato, per tutti i corpi smembrati nei quali si è imbattuto e per i bambini che ha visto sfamarsi tra i rifiuti e le macerie. «Io sono qui, ma laggiù c'è il resto della mia famiglia» mormora Majed Al-Shorbaij, arrivato la prima volta in Italia nel 2019. «Proveremo a puntare al ricongiungimento familiare - commenta Marcello Volta, responsabile comunicazione di Ciac - ma il problema non è entrare in Italia, ma uscire da Gaza». Laggiù. Majed c'era arrivato il 16 settembre 2023: in tempo per restarci bloccato, dopo il massacro con cui Hamas il 7 ottobre (1200 vittime, la maggior parte civili, oltre ai 250 ostaggi presi) ha scatenato l'ira di Israele. «C'era chi festeggiava - racconta il 28enne palestinese -, ma i più hanno subito pensato alle conseguenze. Era prevedibile la reazione dell'Idf».
Da allora, e per 18 mesi, la vita di Majed è stato un peregrinare nella devastazione. E ora che gli vengono offerti un lavoro e un appartamento affittato dal Ciac, le cui spese sono sostenute da un progetto avviato con il Comune di Fidenza, non gli sembra vero. «Ero a Jabalia, nel nord della Striscia. Non evacuammo, come ordinato dai soldati, e mio padre, che già aveva problemi polmonari, rischiò di soffocare per il gas delle bombe: lo salvammo facendogli respirare del vapore». Di lì a poco, la casa fu centrata da una cannonata. Majed e i suoi si trasferirono in una scuola dell'Onu, a sua volta diventata bersaglio. «Ero al terzo piano - ricorda il giovane palestinese -, quando vidi una bomba sventrare il secondo, proprio sotto di me». Via anche da lì, sempre più assetati e affamati. «Mi trasferii con i miei sul tetto dell'ospedale Al Chifa, a Gaza City: come riparo, trovammo una cabina elettrica sul tetto». A procurare un po' di cibo, ci aveva pensato uno dei fratelli, tornato a recuperare qualcosa dalla casa bombardata. «Per un po' garantirono la sopravvivenza a noi e ad altri che avevano ancora meno». Tre mesi, durarono le scorte, prima che Majed cominciasse a guadagnare qualcosa creando la possibilità per gli altri di condividere internet.
Intanto, tra mille ostacoli, proseguiva la storia d'amore con Lamis. «C'eravamo fidanzati il 5 ottobre e proprio il 7 avremmo dovuto fare la festa». Fino ad aprile, i due erano rimasti separati, per poi ritrovarsi a sud e provare a uscire dal valico di Rafah. «Versai anche i 10mila euro richiesti dagli egiziani, ma nel frattempo il passaggio venne chiuso». E il matrimonio? «Lamis era a Khan Younis con una zia: preparai la nostra tenda e ci sposammo il 21 agosto. Quando seppi che aspettavamo un bambino, ero diviso tra la gioia e la paura. Poi, durante la tregua, un breve ritorno a Jabalia e quindi di nuovo nella tenda. «Alla fine - racconta il giovane - l'ho gettata: non ne potevamo più». Intanto, si era aperta la via del rientro in Italia: prima su un pullman, poi su un'ambulanza, il 20 maggio. Il 2 giugno ad Amman, la nascita di Maher. «Significa “abile” spiega Majed. Il nome di mio padre».
rob.lon.