Intervista
Nazzi: «I Carretta? Un abbaglio collettivo»
Giovedì 17 luglio sarà a Parma, al parco Ducale con Indagini live
Fa «il giornalista da tanti anni», così si presenta Stefano Nazzi, ed è diventato famoso con il suo podcast «Indagini», ai primi posti delle classifiche nazionali, e con «Indagini Live» lo spettacolo che porta in giro nei vari teatri d'Italia.
«Nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa. Quelle che nel tempo vi sono diventate familiari e altre che potreste non aver mai sentito nominare. Storie di cronaca, di cronaca nera, di cronaca giudiziaria». E' uno stralcio dell'incipit del podcast - una puntata al mese, dedicato ai più noti fatti di cronaca nera - dove le storie, anche le più dure e dolorose, vengono raccontate con una prosa asciutta, una intonazione neutra, e un linguaggio privo di fronzoli.
A Parma arriverà giovedì - Parco Ducale ore 21,30 -: è la prima volta nella nostra città, e racconterà una delle storie più atroci di sempre, quella del Mostro di Firenze.
Nel tuo podcast ci sono due puntate dedicate a due casi che impressionarono non solo Parma ma l'Italia intera. I Carretta e l'omicidio del piccolo Tommy.
«Sono due storie molto importanti che hanno segnato molto non solo il territorio ma tutta l'Italia. La storia di Tommaso Onofri è una storia terribile perché riguarda un bambino, incomprensibile anche per come è finita. Non si è mai capito perché questo bambino sia stato ucciso. La storia dei Carretta racconta molto di anni in cui ancora i disturbi mentali non venivano affrontati e le famiglie a volte si chiudevano a riccio senza affrontare il problema. E' anche significativa la storia dei Carretta per il grande abbaglio collettivo che ci fu in quegli anni, a inseguire l'idea che quella famiglia era scappata chissà dove».
Si può dire, sempre prendendo in prestito le tue parole, che mai come in questa storia le indagini hanno influenzato la reazione di media e della società e viceversa?
«Questo senz'altro, devo dire che poi fu anche grazie ai media e cioè alla “Gazzetta di Parma” e a “Chi l'ha visto” che si arrivò a trovare Ferdinando Carretta».
Nella tua lunga carriera, ti sei occupato di molte e svariate cose: quando e perché la cronaca nera è diventata la parte principale del tuo lavoro?
«E' stata una cosa che mi ha sempre molto interessato. Quando sono arrivato a Gente nel 2002, ho cominciato ad occuparmene in maniera professionale, tra l'altro era il periodo di uno dei casi più famosi della storia della cronaca nera italiana, il caso di Cogne. Da quel momento ho continuato ad occuparmi di cronaca».
Perché il true crime piace così tanto? Trasmissioni tivù e web, podcast, riviste dedicate: insomma un genere che non conosce flessioni. Anzi.
«E' una cosa che è sempre esistita, adesso sono di più i mezzi e quindi è più diffusa. Siamo attratti da fatti che ci sembrano lontanissimi che non troviamo neanche immaginabili, e li viviamo con una paura controllata come dietro un vetro. Le cose che più ci spaventano o non comprendiamo, cerchiamo di capirle. Poi c'è l'empatia verso le vittime, ci sentiamo partecipi del dolore altrui. I motivi sono tanti».
Come nasce una puntata di Indagini? E quali criteri ti indirizzano a una storia piuttosto che a un'altra?
«Scelgo storie che a distanza di un po' di tempo, che può essere anche tanto, possono essere rimesse in ordine. Quelle storie attorno alle quali si è detto e costruito moltissimo, anche cose che non sono uscite dall'iter processuale e su cui si può fare il punto: voglio rivederle con una certa freddezza cercando di capirle. Capire cosa è rimasto e come le avevamo vissute allora».
Quindi Indagini sono le tue indagini, non quelle degli altri.
«Sì ... anche se il mio lavoro nasce dalle carte processuali».
La tua è una narrazione che rifugge dagli stereotipi: togliere ciò che non aggiunge nulla al racconto, con la volontà di non forzare le emozioni. A volte le vittime non rischiano di rimanere un po' sullo sfondo?
Il rischio c'è sempre ma è una cosa che io cerco di non fare. Una vittima è una vittima, non è che aggiungendo aggettivi è più vittima. E' il fatto stesso, quello che è successo che dà emozioni, dolore, rabbia, paura e quindi aggiungere cose per cercare di forzare reazioni è inutile. Io cerco però sempre di tenere al centro la storia delle vittime».
La prima puntata del podcast è dedicata a Garlasco. Ci spieghi cosa sta succedendo?
«E' anche un processo naturale, nel senso che quando una Procura, dei giudici dicono dopo 18 anni che probabilmente è stato sbagliato tutto, questa cosa scatena automaticamente una reazione di interesse ed emozione. Dopo di che, come avviene, e forse ancora di più in questo caso, si verificano la fuga di notizie, la costruzione di cose che alla fine vedremo se c'entrano, oltre a avvocati che diventano protagonisti.... Sembra tutto una costruzione di fantasy e non della realtà. Poi bisognerà vedere nella realtà cosa resterà di tutto questo. Una cosa è il racconto, un'altra è cosa uscirà dal corso delle indagini».
Indagine Live ha un successo incredibile, come il podcast del resto. La potenza del racconto o c'è qualcosa in più? A Parma porterai la storia del cosiddetto mostro di Firenze, che hai definito una storia intricata e semplice al tempo stesso.
«Sì, intricata anche per tutte le ipotesi fantasiose che sono uscite nel tempo. Io cerco di rimettere ordine e di attenermi ai fatti concreti che uscirono dalle indagini e dai processi. Il successo è forse nel racconto che riesce a togliere piuttosto che aggiungere».
Troveremo una nuova puntata del podcast con un'altra storia parmigiana?
«Si si, sarà quella di Katharina Miroslawa».
Paola Guatelli