Tutta Parma

Anni Cinquanta, don Dagnino e gli altri parroci nel cuore della gente

Lorenzo Sartorio

Fino agli anni Cinquanta i seminari e i conventi erano affollati di giovani che avevano deciso di diventare preti o frati. Come non ricordare, ad esempio, le lunghe file di giovani seminaristi sullo Stradone per la passeggiata quotidiana che li separava per un oretta dai libri ? Indubbiamente, ci sarà stata di mezzo la vocazione ma, spesso, furono le precarie condizioni economiche di molte famiglie, specie del contado e delle nostre valli , a collocare alcuni dei propri figli laddove veniva loro impartita un’ottima istruzione e, soprattutto, veniva dato loro da mangiare. Cose che, in casa, non potevano avere. E, allora, iniziava per tanti giovani la strada del sacerdozio che li avrebbe portati a diventare parroci di parrocchie di città, di campagna o di montagna. Il parroco, in paese, faceva parte dell’eletta schiera di notabili che venivano rispettati e quindi invitati ai pranzi nuziali e alle sagre.

Come pure venivano interpellati nei momenti importanti quasi si trattasse di un sinedrio di saggi. Il parroco, infatti, unitamente al sindaco, dottore, farmacista, maresciallo, maestra, ostetrica, veterinario e al «ragionér äd banca» faceva parte dell’intellighenzia del paese di una volta. Rispetto ai colleghi «vip», era ancor più ascoltato in quanto, il suo collegamento in diretta con l’Altissimo, gli consentiva maggior considerazione da parte della gente che, in lui, vedeva il pastore delle anime ma, soprattutto, colui che sapeva tutto di tutti. Forse, più del maresciallo. Giungeva al paese giovane sacerdote fresco di ordinazione. Solitamente era un pretino magro, smunto, dal volto emaciato dagli studi e dalle lunghe ore trascorse nei severi corridoi del seminario.

Dopo un po’ di tempo anche il giovane pretino si ambientava sempre più nella sua parrocchia, cominciava a conoscere bene il suo gregge, sapeva come richiamare all’ovile le pecorelle smarrite, sapeva quali tasti schiacciare per ottenere dalle autorità locali favori per la sua gente. Finalmente abbandonati gli sciapi cibi del seminario, poteva apprezzare l’abilità culinaria delle «rezdóre» del paese le quali, non solo lo foraggiavano con uova e pollame, ma non mancavano di invitarlo a pranzo e a cena nelle occasioni importanti. In poco tempo il giovane pretino assumeva le sembianze di un robusto pretone e, quella vestina nera ormai troppo stretta, veniva sostituita da una robusta tonaca che doveva fasciare un marcantonio di notevole stazza. Le parrocchie d’una volta non erano certo come le attuali. Un tempo la gente frequentava molto di più la chiesa, partecipava molto più alle varie funzioni e, specie nei paesi, sapeva fare molto più comunità. E, questa comunità, non si formava all’osteria o da altre parti, ma in parrocchia dove i ragazzi avevano spazio per giocare, le donne per addobbare la chiesa e intrecciare pettegolezzi, gli uomini rendendosi utili in certe occasioni quando gli eventi esigevano che si mettesse in campo forza fisica e buona volontà come nel tempo di Natale o per la processione del santo patrono. Il parroco, comunque, era al centro del paese e, da quel confessionale, poteva conoscere umori, vizi, virtù e abitudini della sua gente che capiva, sapeva trattare e cercava di aiutare come poteva. Non tutti i parroci, ovviamente, erano uguali, però, la maggior parte era animata da grande generosità ed altrettanto amore nei confronti della propria comunità. E tutto ciò veniva testimoniato, soprattutto, in occasione di gravi calamità e, cioè, quando il paese poteva correre seri pericoli come in caso di alluvioni, incendi, terremoti, epidemie.

In quei frangenti il parroco, oltre suonare a martello le campane, allertava tutto il suo spirito e il suo animo e, molte volte, si rimboccava le maniche, proprio alla Don Camillo, per porgere un concreto aiuto alla sua gente. In certi paesini dell’alta Val Cedra e della Val d’Enza, nelle gelide notti invernali, quando imperversava una bufera di neve, ogni ora, parroco e sagrestano (a turno) suonavano le campane per avvisare, chi si fosse perso nella tormenta (ambulanti o pastori), che lì potevano trovare un ricovero. Nella quiete della canonica, arredata in modo sobrio, ma allo stesso tempo accogliente, oltre la cucina, «regno» della «perpetua», l’immancabile bersò che dava sull’orto dove in estate poteva schiacciare, al fresco, il pisolino della siesta post prandiale, il prevosto, disponeva di uno studiolo pieno zeppo di carte, documenti, messali, santini e uno scalcinato armonium alla cui tastiera, certe sere, si cimentava in inni sacri. Matrimoni, funerali, battesimi, benedizioni, ammalati, vecchi, disoccupati, poveri, i bambini della dottrina, tutto faceva parte del bagaglio della parrocchia al quale dare risposte concrete e, soprattutto, dettate dalla coscienza di uomo di fede. E il mezzo di locomozione In montagna, se andava bene, il mulo. Nella bassa, la cara vecchia bici sulla quale saliva arrotolando la tonaca alla cintura in modo tale di fissare l’orlo dei pantaloni con un paio di molette da bucato («mojètti») per evitare che finissero tra i raggi della bici. Però c’erano anche momenti lieti trascorsi, solitamente, coi piedi sotto la tavola in occasione delle feste patronali.

In quelle occasioni, terminata la processione e ormai svanito nella brezza vespertina il profumo dell’incenso, il parroco si accomodava al posto d’onore e, il più delle volte dotato di buon appetito, faceva onore a tutte le portate compresi quei bicchieri di lambrusco che, al termine della cena, gli consentivano di «volare» in canonica in modo leggero e spensierato come se avesse le ali di un angelo. A proposito di preti con i piedi sotto la tavola, lo scrittore e studioso parmigiano Giovanni Ballarini, nel suo bellissimo libro «Il boccon del prete» (Tarka editore), prende spunto dalla parte terminale della schiena degli uccelli, soprattutto del cappone e dei palmipedi acquatici come anatre ed oche che un tempo, per la sua delicatezza, era un boccone riservato, nei banchetti, alle personalità importanti come, appunto, i preti ed i curati che, in fatto di buon appetito, non scherzavano. Sempre sull’ala degli amarcord, tra i tanti bravi sacerdoti che hanno svolto il loro apostolato in città e in provincia, non si possono non ricordare il battagliero monsignor Giuseppe Orsi, parroco di San Vitale, l’altrettanto «barricadero» don Raffaele Dagnino parroco di San Giuseppe, il benedettino padre Gregorio Maggi anima dell’oratorio di Borgo Pipa, padre Pietro Rossi amatissimo parroco «d’la Nonsiäda», don Romeo Mori, prima parroco in Santa Maria Maddalena e, quindi, monaco camaldolese negli eremi di Camaldoli e Fonte Avellana, l’ineguagliabile «benedettino d’assalto» padre Paolino Beltrame Quattrocchi, monsignor Pietro Rossolini, parroco del Duomo: il «prete - parà», monsignor Pietro Boraschi, per sua stessa ammissione «prét con al mäl dal cuadrél», artefice dell’imponente complesso del Corpus Domini e don Pierino Thei, prima parroco a Vicomero, e poi cappellano nella «Céza dal Bambén» di Barriera Farini dove celebrava la quotidiana messa vespertina.

Un altro sacerdote alla Padre Lino ma anche con un certa somiglianza caratteriale a don Camillo fu don Erminio Lambertini, molto amato nella nostra città che lo aveva battezzato tout court «al prét di capanón» in quanto, don Erminio, negli anni Quaranta, svolse il suo apostolato nelle zone della Navetta e del Cornocchio allora particolarmente degradate e dove la miseria, ogni giorno, era ospite fissa in casa di quelle famiglie numerose che avevano seri problemi per quanto concerneva, appunto, il mettere qualcosa sotto i denti sia a pranzo che a cena. Non fu certo uno che si fece intimorire dai mitra o dagli ordini e, da uomo libero e generoso, si battè per la libertà durante l’ultima guerra non mancando di assistere quanti, di qualsiasi fazione, si rivolgevano a lui per avere un consiglio, un incoraggiamento, un riparo, una micca di pane.

Un altro grande merito di don Lambertini, nell’immediato dopoguerra, fu quello di battersi con ogni forza per la riconciliazione degli animi facendosi antesignano di quel sentimento di pacificazione nazionale ora, a distanza di oltre settant’anni dalla fine guerra, da più parti invocato. A proposito di parroci, una leggenda antica narra di un giovane contadino, pittore autodidatta, che, in un paesino del nostro appennino, era stato arruolato dal parroco per realizzare l'immagine di una Madonna sulla parete disadorna di una cappellina. Il compenso, al ruspante artista, era stato pattuito con il pranzo e la cena per tutti i giorni che sarebbero occorsi per finire l'opera. Dopo alcuni mesi l'affresco era pronto come pure l'inaugurazione dinnanzi ai parrocchiani. Arrivò il grande giorno, ma quando il prete tolse il telo che copriva l'affresco, trasalì poiché, sia la Madonna che il Bambino e gli angeli avevano il viso rivolto al muro. «Mó có ät combinè ?», sbottò il prete rivolto all'ingenuo artista che rispose: «Reverendo, tùtti il volti che la só parpétua l'am' däva da magnär, in-t-al pjat, a gh'éra sémpor dil gran sigòlli. Am' dispiazäva fär sentir al mé fiè ala Madònna, al Sgnór picén e a j' àngioj. E alora j'ò pensè äd girärorgh la tésta contra al mur».

Lorenzo Sartorio