Intervista

Beppe Carletti: «Noi Nomadi, coerenti e non di moda»

Sono la band più longeva in Italia e prima di loro, al mondo, lo sono soltanto i Rolling Stones. La musica che hanno creato è da sempre riflesso delle sfide sociali del momento, con testi che parlano di libertà, solidarietà e speranza. Nel corso degli anni hanno attraversato diverse fasi e cambi di formazione, ma il loro spirito rimane sempre lo stesso: parliamo ovviamente dei Nomadi che nel 2023 hanno festeggiato i sessant’anni di onorata carriera. La sera di venerdì il decano della squadra Beppe Carletti (tastiere, fisarmonica), Cico Falzone (chitarre), Domenico Inguaggiato (batteria), Massimo Vecchi (basso), Sergio Reggioli (violino), Yuri Cilloni (voce) si esibiranno a Gaiano. Immancabile quindi l’appuntamento al campo sportivo, alle 21.30.

Carletti, rieccovi in tour. Che cosa si prova?
«Noi siamo in tour perenne, abbiamo fermato tutto per dieci mesi solo quando è morto Augusto Daolio nel 1992. È il nostro modo di essere, se siamo qui è perché non facciamo i tour come gli altri, nel senso che non abbiamo la loro stessa promozione quindi per noi cantare risulta vitale. Non siamo certo i più bravi, intendiamoci, ma credo che se ci fermassimo per tre mesi, ci fermeremmo per sempre».

Va bene che siete (i) Nomadi, ma quali luoghi sintetizzano la vostra storia?
«È vero, siamo raminghi, ma con radici forti. Visto che la maggioranza di noi è emiliana, direi Novellara, Reggio Emilia o la provincia di Parma. La grande città non ci ha mai sedotto. Questo ci ha aiutato a restare coi piedi per terra, senza montarci la testa e vivendo della nostra arte e della nostra amicizia».

Definisca amicizia.
«Una cosa sacra, fonte di stima reciproca. Anche se nel gruppo sono cambiate venticinque persone, questo legame non è mai venuto meno. Bisogna salire sul palco perché si sta bene insieme, questo è il punto. Forse è un’idea un po’ all’antica, ma a noi piace così».

Qual è un suo ricordo indelebile dei Nomadi?
«L’arrivo di un diciassettenne Daolio in una balera in provincia di Rovigo».

E...?
«Sale sul palco e attacca con “Be-pop-a-lula” poi interpreta due brani in pseudo inglese. La gente va in visibilio e noi capiamo di aver trovato il nuovo cantante, peraltro nostro coetaneo. Da lì è nato un vero e proprio idillio che si è concluso solo il giorno della sua morte. Pensi che una volta mi ha addirittura chiamato “fratello”. Un grande uomo. Sì, soprattutto perché non ha mai pensato di fare il cantante solista».

Cosa possiede di suo?
«Dei quadri, lui era anche pittore».

Tre canzoni che riassumono altrettanti periodi della vostra storia.
«”Dio è morto” del 1967, “Io vagabondo” del 1972 e “Il pilota di Hiroshima” del 1985».

Il vostro ultimo album si intitola «Cartoline da qui». Da qui dove esattamente?
«Dal Po e dalle nostre campagne. Non a caso la title-track l’ha scritta Ligabue».

La collaborazione con Francesco Guccini è stata fondamentale per voi. In che rapporti siete adesso?
«Buoni. Alcuni suoi versi, letti da Nerì Marcorè, compaiono all’inizio di «Cartoline da qui». Adesso però vive isolato a Pavana, ci vuole quasi l’elicottero per arrivarci (ride, ndr). Francesco è un vero poeta, siamo stati davvero fortunati a conoscerlo. Auguro a tutti un incontro simile».

Esiste nell’odierno panorama musicale un artista o un gruppo che potete considerare vostri eredi?
«No, ma a me piace Ultimo, compone buoni testi e buona musica. È l’unico di cui si capiscono le parole quando canta. Il settore è completamente mutato. Un tempo si vinceva un “disco di platino” per un album di circa dieci, dodici pezzi. Adesso ne basta uno solo su Spotify».

Come scrivete le canzoni?
«Partiamo dalle nostre idee, ma capita anche che si tragga spunto e materiale dalle canzoni che ci mandano i fan. Ovviamente li avvisiamo di che cosa vogliamo appropriarci, ad esempio di una strofa. Così il nostro slogan degli anni Settanta - “Prendere dalla gente per ridare alla gente” - si realizza. In seguito si lavora di squadra e nasce la canzone».

Un libro che tiene sul comodino?
«“Se questo è un uomo”. Anche mio padre, da soldato, è stato in campo di concentramento, a Buchenwald».

Un poeta che ammira?
«Guccini, senza dubbio».

Cosa significa essere Nomadi oggi?
«Non andare di moda, essere sé stessi e soprattutto restare coerenti, che per me è un vanto».

Come definirebbe con una parola questo 2025?
«Triste. Dalla Storia non abbiamo imparato niente».

Quale sarà la scaletta del concerto di Gaiano?
«Ancora non si sa, la facciamo giorno per giorno, ma non si preoccupi: i brani più famosi ci saranno».

Progetti per il futuro?
«Concludere i concerti. Ad agosto ce ne aspettano venticinque, a settembre quindici. Una vera prova di resistenza...».

E poi?
«Poi, prima di qualche data a novembre nei teatri, tutti in vacanza».

Ma insieme pure lì o separati?
«No, no, con le rispettive famiglie. Sempre insieme non va mica bene».

Emanuele Marazzini