Amarcord
Quando si vendemmiava nel cuore di Parma
I veri intenditori non bevono, ma degustano antichi segreti. E, parlando proprio di vino e, quindi, di uva, non si può non ricordare che questa stagione ci porta sotto il naso il profumo del mosto e di quegli antichissimi segreti che il vino custodisce fin dai tempi più remoti. La liturgia di quel sacro rito che è la vinificazione iniziava con la vendemmia. Tutta la famiglia contadina partecipava a questo rito agreste quando i grappoli si tingevano d’oro o di rosso ed i vigneti erano sorvegliati a vista dal «rezdór» in quelle torrette di guardia erette nella parte più elevata della vigna per vigilare sull’uva e difenderla dalle incursioni dei predatori alati e anche di quelli a due gambe. Dopo la vendemmia, sotto i raggi di quell’ultimo sole gagliardo che di lì a poco avrebbe lasciato il posto ai primi velari autunnali, seguiva un altro rito relativo alla pigiatura, non certo con le macchine come si usa fare oggi, ma con i piedi. Piedi nudi di donne, uomini, vecchi e bambini che, per una giornata, pestavano quintali di grappoli d’uva in un ambiente surreale dove urla, grida e schiamazzi si mescolavano con quell’acre profumo di mosto che attirava nuvole di moscerini. Il luogo preposto per la pigiatura era il «tempio» dei vini e dei salumi, la «cantén’na», il cui gran sacerdote era il «rezdór». La «cantén’na» doveva essere bassa e con grosse travi ed il pavimento a ciottoli o in terra battuta e, lì, dopo ben precise e antiche liturgie nasceva il vino.
Ogni zona produceva il proprio: «bàsa», pedemontana e «colén’na» (che si fregia d’essere il migliore), ma esisteva anche al «vén äd citè» che meriterebbe di essere menzionato. Quando in città i giardini della prima periferia prevedevano, oltre che aiuole in fiore, anche bersò di viti e orti, a settembre, si iniziava ad avvertire il profumo di quello che sarebbe divenuto un timido vino di città. Ad esempio, all’ombra della Cittadella, negli anni cinquanta fino agli anni sessanta, ricalando un autarchica usanza, in questa stagione, cominciava, sia nei giardini che nelle cantine di numerose case, uno strano formicolare di uomini e donne che si accingevano a preparare il rito della vendemmia che, se in campagna ed in collina assumeva dimensioni ovviamente più ampie ed importanti, in città, pur essendo in tono minore, sprigionava tutto il suo fascino. Erano tempi in cui le casette di periferia prevedevano il pollaio, alcune addirittura la colombaia. Quasi tutte, comunque, vantavano un bell’orticello retaggio del «Ventennio» ma, più che altro, non mancavano quei bei bersò che, in estate, offrivano un’ ombra ristoratrice ed ospitavano allegri commensali durante la «Rozäda äd San Zvan» mentre, in settembre, si caricavano di turgidi e profumati grappoli di uva bianca e rossa. Quando il sole aveva esaurito e portato a termine il proprio compito e l’uva era ritenuta abile per la vendemmia, si procedeva a raccogliere i grappoli e a deporli in autarchiche cassette di legno tra l’ allegro vociare di gente e voli radenti di api e vespe che non esitavano a colpire qualche vittima. In questo caso, «il véci» (che avevano, in occasione dei temporali estivi, difeso il piccolo vigneto urbano dalla «timpésta» bruciando l’ulivo con la candela benedetta della «Serióla»), segnavano la puntura dell’insetto con l’anello d’oro perché era credenza diffusa che il pungiglione uscisse.
L’allegra brigata iniziava la vendemmia cittadina al mattino o nel primo pomeriggio per terminarla alla sera dove le cassette ricolme d’uva venivano allineate in cantina per essere vuotate nelle tinozze per la pigiatura fatta rigorosamente coi piedi. Al tramonto, quando il sole si nascondeva dietro i secolari platani della Cittadella ed il solerte custode del parco Adriano Catelli si accingeva a fare il suo giro d’ispezione vespertino sui bastioni in sella alla sua bici, le «rezdóre», mettevano a tavola i lavoranti per l’immancabile «cena della vendemmia» foriera del «vén äd citè» a proposito del quale, nel settembre 2010, il cronista ricevette da un fraterno amico d’ infanzia una singolare «soffiata» che lo incuriosì. William Tedeschi, noto musicista parmigiano, virtuoso dell’armonica a bocca, confidò al cronista che, seguendo una consolidata tradizione, ogni anno, ai coristi del coro «Monte Orsaro» (del quale Tedeschi faceva parte), veniva donato un cestino d’uva fragola (in «pramzàn frambò») di un vigneto di…. Strada Repubblica. Avete capito bene : Via Repubblica, già Strada Vittorio Emanuele nonchè antica Strada San Michele e, per i «pramzàn», «Sträda Méstra», proprio nel cuore della città. Il vigneto era ubicato in un antico palazzo al civico 73. Carlo Fornaciari, ex ortolano, titolare dello storico negozio di «frutta e generi vari» ubicato nello stesso palazzo e decano del coro Monte Orsaro, tutti gli anni, infatti, portava ai colleghi della propria formazione corale, i profumati grappoli del proprio vigneto che, da oltre un secolo, impreziosiva il suo cortile. Un tempo, il padre di Carlo, Luigi, ( soprannominato «Lirén»), che a sua volta seguì le orme del padre Giuseppe fondatore del negozio di frutta e verdura nonché costruttore «äd prét da lét» e «navasól», aveva l’usanza di fare il vino, pigiando nel cortile, non solo l’uva del suo bersò, ma anche uve che acquistava nel primo contado. Quindi vinificava nella propria cantina che era accessoriata con tutti gli attrezzi per fare il vino.
Un’uva, dunque, «pramzàna dal sas» all’ombra del campanile della chiesa di San Sepolcro nel cuore di Parma dove un tempo quasi tutte le case, anche quelle «dedlà la l’acua», nei loro spazi interni, prevedevano orti con annesso un vigneto. Come nel caso dei rigogliosissimi «òrt äd Vescovi» ubicati dalle parti dell’attuale via Adeodato Turchi dove sorse poi un’osteria fra le più frequentate dell’epoca alla quale fece seguito la fabbrica dei coni per gelato sempre gestita dalla famiglia Vescovi.
I Vescovi, ortolani per vocazione, devono la loro notorietà a tale Vittorio Vescovi che fu il primo della famiglia ad iniziare l'attività di ortolano. Un omaccione, Vittorio, alto grosso e generoso il quale si vantava di avere partecipato alla caccia dei briganti in Sardegna durante il servizio militare prestato nell'Arma dei Carabinieri. Vittorio ebbe due figli, Ugo ed Enrico («Richén»), anch'essi abilissimi ortolani.
Addirittura l'insalata che producevano era ritenuta la migliore della città poichè veniva coltivata in cantina e seminata sopra le vinacce dell’uva dei loro orti così potevano produrla anche in inverno quando le serre non esistevano. E, quella nivea insalata adattissima per accompagnare gli arrosti natalizi , aveva un vago sapore di vino. Una genialata! La leggenda vuole che un vino parmigiano del tutto particolare, addirittura un «vén da méssa» pregiatissimo, lo producessero le monache carmelitane nel loro convento di borgo Felino che prevedeva, non solo una grossa vigna, ma anche uno splendido orto al quale certo l’acqua non mancava essendo stata in passato la zona dei mulini.
Un'uva, quella di Fornaciari, che, molto probabilmente, assaggiò anche Padre Lino poiché la tradizione vuole che il francescano, nei suoi frequenti tour dall’Annunziata alla Barilla, transitasse in Strada Maestra. E, proprio il giorno in cui morì, sentendosi particolarmente stanco, sostò in un negozio di frutta e verdura accanto a Barriera che, molto probabilmente, era quello dei Fornaciari. I titolari del negozio, notando il frate affaticato e pallido, lo fecero sedere e pare, che per la prima volta, Padre Lino, si lasciò andare in un’espressione in dialetto: «a n’i' n pòs pù» , quindi riprese il cammino verso lo stabilimento Barilla dove morì. Era il tramonto del 14 maggio 1924.
Lorenzo Sartorio