La tragedia

Il parmigiano Filippo Reggiani con la famiglia nell'inferno del Nepal: «O ci buttiamo dal quarto piano dell'hotel o moriamo bruciati»

Mara Varoli

«O ci buttiamo o moriamo bruciati». Urla di disperazione, quelle di una famiglia di Parma nell'inferno di Kathmandu. Una città in fiamme per la rivolta della cosiddetta Generazione Z, che in poche ore ha distrutto i palazzi del potere, abitazioni e strade: «Ho visto la morte da una parte e la morte dall'altra. Ho scelto la meno peggio».

Filippo Reggiani ha 48 anni ed è responsabile di un gruppo di consulenti informatici. E il primo settembre scorso è partito con la figlia Matilde di 11 anni, la mamma Cinzia Maestri e il papà Maurizio per il Nepal. Un viaggio di solidarietà.

«Da tempo facciamo volontariato per una scuola di orfani tibetani - racconta Filippo su whatsapp, perché là i telefoni non funzionano più -, grazie all'associazione Tashi Orphan school. Abbiamo portato in questa scuola vestiti, scarpe, acqua, matite e persino una macchina da cucire. Già dal primo giorno del nostro arrivo abbiamo iniziato a fare volontariato e mio papà faceva divertire i bambini con i giochi di magia. Ma martedì è successo quello che non doveva accadere». Una vera rivoluzione, con bande armate che hanno occupato la città e dato fuoco a tutto quello che trovavano sulla propria strada. Allora la famiglia Reggiani si è rifugiata in albergo, così come consigliato dalla gente del posto. E la paura è stata tanta: «Eravamo circondati da una vera folla inferocita contro il governo e contro tutti - continua Filippo Reggiani -. Non potevamo andare in aeroporto perché lo avevano già chiuso. Così come suggerito dalla reception dell'albergo dove alloggiavamo, lo Hyatt Regency, ci siamo chiusi in camera e dalla finestra vedevamo la città buia e i fuochi. Purtroppo in tarda serata ci siamo accorti che anche la hall del nostro albergo era in fiamme. E abbiamo provato ad uscire dalla camera, ma anche i corridoi erano pieni di fumo. Così siamo tornati nelle nostre stanze. E non sapevamo cosa fare».

Nel frattempo Filippo Reggiani ha preso contatti con la Farnesina, «che ci ha sempre assistito - ricorda il parmigiano -. Ma noi non potevamo scappare. Per impedire che il fumo entrasse in camera abbiamo bagnato le salviette e le abbiamo messe intorno alla porta. Una situazione terrificante. Così mi sono messo a gridare aiuto dalla finestra e un gruppo di ragazzi nepalesi si è accorto che mentre il nostro albergo andava a fuoco, noi eravamo imprigionati al quarto piano. Così hanno cercato di aiutarci. Intanto ho legato tutte le lenzuola per calarci dalla finestra. Avevamo molta paura ma non potevamo fare altro. Quei ragazzi hanno sistemato due materassi sotto le nostre finestre e ci hanno buttato una corda da aggiungere alle lenzuola, che avevo legato al letto. Eravamo a una quindicina di metri di altezza e non era certo semplice scendere giù, soprattutto per mio padre che ha 74 anni. Ma mi sono detto: o bruciamo vivi e ci buttiamo giù e proviamo a rimanere vivi».

Filippo si è calato per primo, anche per vedere se le lenzuola e la corda potevano tenere il peso. «Sono riuscito a scendere fino agli ultimi due metri e poi sono caduto, fortunatamente mi sono rotto solo due dita. Da sotto cercavo di dare indicazioni a mia figlia, mia madre e mio padre. Quindi, è stato il turno della mia mamma, che è riuscita a rimanere attaccata per diversi metri, poi a circa tre metri e mezzo è volata sui materassi, si è procurata una distorsione alla caviglia ed è svenuta. Poi, mia figlia: io piangevo perché ero terrorizzato che potesse farsi male, ma lei è stata bravissima ed è rimasta incollata alla corda. Purtroppo quando si è buttato dalla finestra mio padre, ha sbattuto il viso contro la parete dell'albergo e si è rotto il naso e tumefatto l'occhio. E' rimasto legato alla corda per poco, come avevo immaginato, e poi ha mollato ed è caduto sul materasso, spaccandosi una gamba. Quei ragazzi ci hanno soccorso e ci hanno accompagnato per 600 metri a piedi. Sembrava l'apocalisse: intorno solo fiamme e macchine che continuavano a bruciare. Abbiamo incontrato anche una banda armata, ma questi ragazzi l'hanno allontanata dicendo che i turisti non si toccano. Arrivati sulla strada principale, davanti all'albergo, siamo stati consegnati all'esercito: i militari hanno capito che avevamo bisogno di cure e così a colpi di mitra per farsi strada tra i ribelli ci hanno accompagnato a un primo ospedale. Da lì in un altro più strutturato. Tutta la famiglia è stata subito messa sotto ossigeno, perché eravamo intossicati. Io stesso non respiravo più. E ieri sera con mia figlia siamo stati dimessi. Grazie alla scuola abbiamo trovato un nuovo albergo e sono anche riuscito a recuperare le valigie, il resto ci è stato rubato. Oggi dimetteranno anche mia madre, mentre per mio padre ci vorrà ancora tempo».

Nella disperazione di una situazione impensabile, Filippo ha trovato il coraggio e la forza per mettere in salvo tutta la famiglia: «Mio padre è in attesa dell'operazione alla gamba - continua Filippo -, ma prima deve risolvere i problemi alla testa, per aver sbattuto contro il muro, e della respirazione. E quando sarà possibile potrà tornare in Italia: la Farnesina, con cui sono sempre in contatto, ci dirà come trasportarlo, perché non potrà fare un volo normale. Stavo però immaginando che quando riapriranno l'aeroporto, appena possibile io e mia figlia rientreremo, in attesa del ritorno di mia mamma e mio papà. Ma per il momento non sappiamo nulla». Poi, Filippo si ferma e prima di chiudere la telefonata dice: «È stata la prima volta che ho pensato: "Muoio prima o dopo?". La preoccupazione per la mia bambina e per i miei genitori mi ha distrutto. Spero solo che la Farnesina continui ad assisterci. Certo, dovrò pagare l'operazione di mio padre, almeno 15mila euro, in quanto ho scoperto che l'assicurazione non risarcisce in caso di eventi socio-politici, così come è la rivolta in Nepal, però siamo ancora qui. Siamo vivi».

Mara Varoli