«TUTTA PARMA»

Quelle briscole nella stalla e all'osteria

Lorenzo Sartorio

Se quei tavoli potessero parlare...! E, non solo i tavoli delle osterie d’una volta, ma anche quelli delle cucinone dei nostri nonni dove la tovaglia veniva stesa solo nelle grandi occasioni: «Nadäl, Pascua e la sägra dal paéz». Su quel tavolone di legno, quasi giornalmente, veniva addirittura versata la polenta sulla quale, con la «mèss'cia», la «rezdóra», versava un gustoso sugo cucinato più con la fantasia dell’orto che non con carne ed altri ricchi ingredienti.

Tavoli dove i «pajzàn », dopo pranzo, seduti a cavalcioni sulla seggiola, appoggiando la testa al tavolo , facevano un «pizlén». Tavoli che avevano ricevuto pesanti manate in caso di forti discussioni in famiglia, oppure che vedevano alle prese le donne nel fare «fojäda e anolén».

Insomma, tavoli come pagine della vita contadina di ieri ma, soprattutto, di quelle numerose famiglie patriarcali il cui fulcro era proprio la cucina e suoi due «altari»: il camino ed il tavolo. Stessa storia anche per i tavoli delle vecchie osterie dove la gente si sedeva per fare uno spuntino a base «äd salàm, formàj o pè äd gozén», oppure, per «zugär» a briscola» segnando i punti con il gesso proprio su quei vecchi tavolini arabescati di cerchi «äd vén ròss ch' al macèva cme l’inciòstor».

Ebbene, in questi antichi tavoli, non si disputavano partite di burraco e di bridge, giochi aristocratici e ancor oggi molto di moda e di tendenza specie nei club e circoli, ma si giocavano ruspanti partite a briscola, scopa, tresette e gilet che potevano avere un epilogo serale anche nelle stalle più accoglienti perché lontano dagli occhi indiscreti delle mogli preoccupate, non tanto alla vista delle carte, ma delle bottiglie di vino e, poi, perché consentivano ai briscolanti di giocare al tepore delle bestie nelle fredde sere invernali.

I briscolanti di una volta, specie i più anziani, erano maschere viventi a causa dei loro volti che tradivano tensione e registravano studiate smorfie attraverso le quali accennavano al compagno ciò che avevano in quelle carte attanagliate da mani rugose quasi fossero un simulacro. Il loro atteggiamento esprimeva uno stato d’animo ed un carattere dai quali traspariva una cultura antica , e cioè, quella della civiltà contadina che, per stemperare mai contate ore di lavoro, consentiva alla sua gente uno svago povero ma molto semplice e ruspante come, appunto, la briscola. Già la cara, vecchia briscola accompagnata da vere e proprie liturgie ancor oggi dure a morire ma, che salvo rari casi, si sono notevolmente affievolite.

Forse i briscolanti di oggi hanno perso l’entusiasmo dei loro vecchi, si accostano ai moderni tavolini dei bar con animo diverso, con comportamenti quasi fuori dal rituale, muovendosi più rapidamente con meno calcolo. Il loro gioco, infatti, è più veloce, meno studiato, più distaccato.

Le allocuzioni dei briscolanti, salvo rasi casi, sono rimaste però le stesse: «va a liss» cioè non aggiungere punti nè briscole, «mèttogh 'na brìsscola», «mèttohg un càrogh», cioè cala un asso o un tre, «strosa» che significa superare in valore la carta dell’avversario, «màsa» che equivale alla richiesta di una briscola più alta che può essere «vestìda» o no. Ma, il più interessante, era comunicare con il compagno una carta importante con cenni convenzionali e concordati che coinvolgevano la bocca, il naso ed anche gli occhi con opportune smorfie che, però, non dovevano essere scoperte dagli avversari.

«Gli esperti del gioco - spiega Enrico Dall’Olio nel suo terzo tomo di «Tradizioni Parmigiane ( Grafiche Step editrice) - studiano atteggiamenti e mosse, toni di voce della copia rivale, interrogano le carte tenendo presenti quelle già passate (carichi e briscole), fanno conteggi a memoria dei loro punti e di quegli degli avversari come calcolatrici e, dopo un’attenta riflessione, decidono. Dal modo di calare la carta con astuzia o con energia si può cogliere la convinzione o la perplessità del giocatore».

C’era tra i tanti qualcuno che sbraitava, che imprecava alla sorte perché «al cärti in' zughävon mìga», c’era chi sogghignava, chi si cimentava in modo beffardo in «arljj» e «torlìdi». Non mancavano rabbuffi e rimproveri tra gli stessi compagni di gioco mentre, alle spalle, si ammucchiavano, quasi sempre, i curiosi: impalati scrutatori d’ogni mossa atteggiandosi a gran maestri e sparando giudizi spesso inopportuni ed irritanti sul gioco fatto. La briscola dei nostri nonni non risparmiava nessuno e, a volte, coinvolgeva anche la «vécia» che in cucina, dopo che le «rezdóre» giovani avevano lavato i piatti, si cimentava, d’ogni tanto, in una partita a briscola molto quieta, ma non per questo meno sentita, durante la quale metteva in pratica gli insegnamenti dei suoi vecchi quando, bambina, assisteva a questo casalingo match accompagnato dalle battute che provenivano dai giocatori, molte volte assai colorite, tanto da indurre le mamme e le nonne a far andar fuori i «putén» a « zugär sòtta 'l pòrtogh». La briscola all’osteria era come una livella: metteva tutti sullo stesso piano e, se per caso si cimentavano al tavolo anche il maresciallo dei carabinieri, al «prét» o «al sìnndich», la legge era uguale per tutti e, quindi, sparivano l’uniforme, l’abito talare e la fascia tricolore ma rimaneva solo l’autorevole briscolante a fare i conti, alla pari, con i suoi avversari. La partita a briscola all’osteria era anche momento di aggregazione, socializzazione, luogo deputato per fare buoni affari (vendere una bestia, un carro di fieno, una partita di formaggio, combinare qualche buon matrimonio ecc.).

Era il luogo dove tutto il paese, la comunità, il borgo, il rione, si ritrovavano attorno ad alcuni tavolini di legno bruciacchiati dai sigari e macchiati di vino, ai quali prendevano posto gagliardi avventori, immancabile cappello i testa, che si sfidavano a colpi di «asso, fante, tre e re» sorseggiando mai contati bicchieri di bianco o rosso, d’inverno, centellinando un piede di maiale bollito, d’estate, all’ombra di un fronzuto bersò, dissetandosi con gigantesche fette di anguria. I nostri nonni, compiendo questi rituali, esorcizzavano le fatiche di un duro e massacrante lavoro, scacciavano lo spettro della miseria e, a volte, della fame, affogavano i loro pensieri in una bottiglia di lambrusco, «scòrsa amära» o malvasia, sognavano un avvenire più roseo e sereno calando una briscola e vincendo quella «mano» che li avrebbe compensati di tante amarezze ed altrettante delusioni magari grazie… alla «Pìta» o «ch' l’Angiolén äd spädi peschè al momént giùsst».

Lorenzo Sartorio