Il grande cuoco ospite di Alma

Ferran Adrià: «La mia rivoluzione e il futuro della cucina»

Claudio Rinaldi

Ferran Adrià è uno dei cuochi più importanti nella storia della gastronomia, senza dubbio uno tra i più innovativi e influenti del XX e XXI secolo, dopo la rivoluzione che ha portato al ristorante elBulli di Cala Montjoi, dove è entrato quasi per caso come stagista, diventando poi executive chef e trasformando il locale in un laboratorio di sperimentazione e simbolo mondiale della cucina d’avanguardia. Ferran Adrià sarà a Parma oggi e domani: questa sera ospite di una cena di gala che Alma, la Scuola internazionale di cucina italiana, ha organizzato per lui alla Reggia di Colorno, e domani sarà il grande protagonista della cerimonia di apertura dell’anno accademico, all’auditorium Paganini.

Innovazione, creatività, ricerca, tecnica, avanguardia: sono queste le parole che la raccontano meglio?

«Oltre a queste parole, che sono nel mio Dna, vorrei essere associato anche ad altre come rischio, purezza, rispetto per il passato, onestà, passione, studio, etica e generosità da condividere in ogni momento. Ma, in definitiva, sei ciò che gli altri dicono di te e puoi solo provare a fare cambiare idea attraverso le tue azioni».

Lei ha compiuto un’autentica rivoluzione, c’è un «prima» e un «dopo» elBulli. Quando se n’è reso conto?

«È stato un processo evolutivo, ma è stato tra la metà e la fine degli anni Novanta che ci siamo resi conto dell'impatto che stavamo avendo, e tutto è culminato quando sono apparso sulla copertina del “New York Times Magazine” nel 2003. Quel momento ha rappresentato senza dubbio una pietra miliare incredibile nella nostra carriera».

Il successo di elBulli è stato straordinario. Ma è vero che nei primi tempi i prenotati erano pochissimi?

«Sì, è assolutamente vero che per molti anni il ristorante era al completo solo durante l'alta stagione turistica o nei fine settimana. Tutto è cambiato gradualmente a partire dalla metà degli anni Novanta, fino al 2003».

Quando è stata la svolta?

«Ci sono stati diversi momenti importanti. Uno di questi è stato il riconoscimento del nostro lavoro creativo da parte della guida Gault-Millau, ma cruciale è stato il riconoscimento da parte del principale esponente della cucina creativa di quegli anni, Joel Robuchon. Così come la terza stella Michelin, nel 1997, e, naturalmente, come dicevo, il traguardo più importante è stata la copertina della rivista del “New York Times” nel 2003. È stata un'evoluzione costante, con impatti che hanno cambiato il paradigma stabilito fino ad allora».

Ci sono alcuni piatti, tra i tanti che ha inventato, che ritiene iconici?

«La minestra di verdure in diverse consistenze del 1994 segna un “prima” e un “dopo” nella mia cucina».

Ha detto in un’intervista che, prima che creativo, un cuoco deve essere felice.

«Sì, è proprio così, uno chef deve chiedersi cosa cerca nella sua carriera e cosa deve fare per ottenerlo. È importante trovare un equilibrio tra sogni e realtà e questo equilibrio significa sentirsi felici quando, ogni giorno, si affronta il proprio lavoro».

Quanto è stato importante per lei partire dalla gavetta? Non dimentichiamo che è entrato in una cucina come lavapiatti.

«Non essere un cuoco professionista ha plasmato la mia carriera perché ho dovuto costantemente mettere tutto in discussione. Questa filosofia mi ha portato a una continua evoluzione».

Lei investe molto sui giovani. C’è ancora oggi la voglia di sgobbare e di imparare che aveva lei da ragazzo?

«Uno dei più grandi piaceri della vita per me è studiare. Dedico molto tempo ogni giorno, quando non sono in viaggio. Per quanto riguarda il lavoro, non considero più quello che sto facendo ora un lavoro. Sono ufficialmente andato in pensione quando elBulli ha chiuso i battenti come ristorante, e ora non percepisco alcun compenso dalla fondazione. Dirigo la elBullifoundation e mi prendo cura dei suoi progetti perché è la mia vita».

Da Masterchef (e dalle varie imitazioni) in poi, non si è mai parlato tanto di cucina in tv. È un bene o un male?

«È un bene, è la migliore dimostrazione di ciò che la cucina ha saputo realizzare. Prima, era impensabile che l’alta cucina entrasse nelle case delle famiglie. È un fatto sociale e culturale di enorme impatto e dobbiamo sfruttarlo affinché le generazioni future crescano riconoscendo la cucina come un'attività umana di prim'ordine».

Essere all’avanguardia è tanto stimolante quando rischioso.

«Certo, devi accettare che non tutto ciò che fai verrà compreso e che avrai seguaci e detrattori. Queste sono le regole del gioco quando sei all’avanguardia».

Lei ha molto a cuore il tema della sostenibilità economica dei ristoranti. A che punto siamo?

«Stiamo riscontrando un problema importante perché manca la consapevolezza dell'importanza di una buona gestione dei progetti. Uno degli sforzi più importanti che stiamo compiendo alla elBullifoundation è proprio quello di cambiare questa dinamica attraverso la conoscenza applicata alla gestione. Dobbiamo avvicinare gli imprenditori alle pratiche di una buona gestione aziendale, affinché smettano di ignorarle nella loro vita quotidiana. Dobbiamo rendere tutto più comprensibile e accessibile. Presto uscirà un libro al quale abbiamo lavorato duramente per fornire le informazioni chiave che ogni imprenditore della ristorazione deve conoscere prima di aprire un'attività e una volta aperta».

Un suo motto intramontabile è che non si può immaginare il futuro senza conoscere il passato.

«Sì, è proprio così. Se vuoi un migliorare il mondo, devi capirlo e, per capirlo, devi sapere come si è costruito. Questa è un'altra delle carenze della società odierna: tutto si muove così velocemente che non ci fermiamo a riflettere su come siamo arrivati fin qui».

Chi sono i più grandi del passato?

«Marie-Antoine Carême, Auguste Escoffier e i fondatori della nouvelle cuisine».

E quelli della sua generazione?

«Basta guardare gli chef con tre stelle Michelin e quelli in cima alle liste di riferimento, come “The World’s 50 best restaurants” o “The best chef awards”. Unendo questi criteri, si capisce chi sono i protagonisti, pur sapendo che nulla è perfetto e che possono esserci ingiustizie».

Quanto è importante per uno chef ai massimi livelli essere un bravo maestro? Da elBulli sono usciti centinaia di professionisti che ora lavorano in tutto il mondo.

«La cucina è cambiata radicalmente dal momento in cui una generazione ha deciso di condividere tutto ciò che faceva, con l'intento di migliorare l'intero settore. Quest'idea ha sempre fatto parte del mio modo di intendere la professione e, senza dubbio, l'influenza di elBulli su migliaia di professionisti deriva da questo spirito di condivisione delle conoscenze e di ispirazione per la loro libertà di pensiero creativo».

Ha detto che elBulli ha avuto successo anche perché era un ristorante divertente. Cosa intende?

«Quando uno si dedica all’avanguardia, deve accettare che non tutto ciò che crea verrà compreso e accettato, ma c'era una cosa a elBulli su cui non si discuteva: volevamo che tutti i nostri ospiti fossero felici per tutta la durata della loro esperienza. Questo non dipende solo dalla cucina, ma da tutti i dettagli che compongono l'offerta: il modo di accogliere, il legame emotivo con il cliente. Il concetto di festival, il divertimento, il ritmo, la cura nell’attenzione... tutto si univa alla cucina per offrire un’esperienza globale che era allo stesso tempo altamente professionale e divertente, un'esperienza unica».

È soddisfatto dell’evoluzione di elBulli in fondazione?

«Molto soddisfatti. È il passo definitivo che ci consente di valorizzare e condividere tutta la nostra esperienza e di chiudere il cerchio dell'universo elBulli, lasciandolo in eredità alle generazioni future».

Che futuro immagina per la ristorazione?

«Immagino un’industria con professionisti altamente qualificati, con progetti basati su approfonditi studi preliminari e una buona concettualizzazione, con piani aziendali e finanziari ben strutturati, con un sistema di gestione integrale che colleghi tutte le risorse aziendali. Ma sono realista: c'è ancora molto da fare e dobbiamo impegnarci arrivarci, soprattutto adesso che il nostro settore sta vivendo un cambiamento di paradigma senza precedenti. Dobbiamo creare modelli che promuovano la formazione e rispettino la sostenibilità ambientale e sociale. È una sfida che richiede che tutti gli attori, aziende, istituzioni e clienti. facciano la loro parte».

Cosa pensa della cucina italiana?

«È un pilastro della cultura gastronomica mondiale. Le sue ricette più tradizionali riflettono la vastità e la ricchezza di un patrimonio culinario tramandato di generazione in generazione, che ha saputo creare piatti ormai considerati tradizionali in tutto il mondo. È anche una cucina che riunisce un patrimonio di talenti creativi e che continua a evolvere quel patrimonio con uno sguardo contemporaneo. Attualmente ha la migliore generazione di giovani chef della sua storia».

Quali sono i ristoranti (italiani) dove va più volentieri?

«Per via della mia collaborazione con Lavazza, mi lascio sempre guidare e vado nei ristoranti che vogliono farmi conoscere. Naturalmente, mi piacciono quelli buoni, sia tradizionali che creativi».

Il piatto (della cucina italiana) preferito?

«Il vitello tonnato».

Quello che l’ha sorpreso di più?

«Ultimamente gli gnocchi al pomodoro di Federico Zanasi al Condividere».

Parma è famosa nel mondo (anche) per il prosciutto e il parmigiano reggiano. Meglio il nostro prosciutto o il vostro?

«L'importante è godersi ogni prodotto nel momento giusto e nel luogo giusto. Non si possono fare confronti».

Con Antoni Luis Aduriz ha ideato il Macc, Madrid culinary campus, dove si formano (ottenendo una laurea) i cuochi di domani. Come sta andando?

«Molto bene, siamo molto soddisfatti dei progressi compiuti e fiduciosi per il futuro. Questo ci dimostra che Sapiens, la metodologia che abbiamo sviluppato a elBullifoundation, ha piena applicazione in ambito universitario».

Quanto sono importanti il ruolo e il prestigio di Alma, la “nostra” Scuola internazionale di cucina italiana?

«Un’istruzione di altissimo livello è fondamentale in un mondo sempre più competitivo e Alma permette di trasmettere a professionisti di tutto il mondo il Dna della cultura gastronomica italiana. Si tratta quindi di un ruolo fondamentale non solo per l'Italia, ma anche per il suo impatto a livello internazionale».