Raccontami com'era l'Appennino: interviste ai «nonni»

Monica Rossi

Quante volte abbiamo lamentato la perdita dell’identità dei territori e dei mestieri del passato? 
Costruire un forno a legna come si faceva quando ogni cosa era pensata per durare decenni; terrazzare campi tutt’altro che pianeggianti; mettere su un muretto a secco, fare innesti o intrecciare rami per ricavarne cesti o valli. 
Nei Musei della civiltà contadina, molti «saperi» vengono materialmente custoditi per tramandarli alle future generazioni. Però, come in un colino a maglie troppo larghe, purtroppo si perde per strada anche troppa sostanza. 
Ed è quella sostanza che viene tramandata di padre in figlio solo per tradizione orale e solo se il figlio prende in mano le redini dell’attività.
 Prima che il tempo disperda questo patrimonio, conviene raccogliere più informazioni possibili. 
Armati di questa convinzione, si sono mossi Mauro Carboni, agronomo di EquaBiodiversità, e il Consorzio delle Alte Valli: insieme hanno dato il «la» a una serie di interviste ai nonni dell’Appennino parmense. 
Un progetto che  però la recrudescenza della pande-
mia ha costretto a una bru-
sca frenata, perché i nostri vivono nelle residenze protette.
 «Riprenderemo non appena possibile», fa sapere Carboni. Che poi spiega: «L’idea del progetto è nata per caso quest’estate e già alla prima intervista ci siamo accorti che stavamo scoprendo uno tesoro. Sono venuti a galla usi, costumi, segreti e ricordi di come si coltivavano certi alberi e perché. È così che abbiamo scoperto l’esistenza della mela “verdona”, varietà che si mangiava solo cruda, mentre per le torte o le cotture c’erano le “rosa”».
 Chicche anche sul fronte dei vitigni e degli allevamenti. 
«Mi hanno parlato di un “Monfrà”, a bacca rossa per un vino considerato pregiato, e di un più alla buona “Crova”. Vitigni che si sono forse persi, perché nelle montagne l’uva si coltivava per l’autoconsumo - racconta Carbone -. Le vacche da latte poi non erano quelle bianche e nere: c’era la “Grigia dell’Appennino”, una bardigiana che dava un latte buonissimo ma ne faceva poco. 
E c’era la “Formentina”, una razza dal manto rosa-aranciato, tipicamente reggiana, che si è estinta negli anni ‘50». 
Storie di una vita fa, insomma. 
Vite indiscutibilmente dure, segnate come le mani di chi lavorava la terra potendo contare solo su pochi attrezzi e tanta tenacia. «Vite tutte da scoprire. Speriamo di poterlo fare presto, ascoltando quelle che sono davvero le ultime generazioni in grado di passarci il testimone di un inestimabile patrimonio agricolo-culturale». 
Per ora il progetto è dunque fermo alle storie di Edda, Angela, Emma, Maria e Gino, ospiti delle Case per anziani di Varsi e Bardi. «Gireremo in largo e lungo anche la Valtaro: andremo a Bedonia, Borgotaro, Albareto, Compiano in cerca di storie, segreti, aneddoti e consigli per non perdere le nostre tradizioni».