Provincia
Ponte Verdi, una storia di epiche rivalità e contese. Quarantacinque anni fa l'inaugurazione
Dal 1980 collega i territori del Parmense al Cremonese . L'ex sindaco di Zibello: «La diatriba con Roccabianca»
I l ponte sul Po «Giuseppe Verdi» che collega Cremonese e Parmense nel tratto compreso tra San Daniele Po, Roccabianca e Polesine Zibello, dove sono in corso lavori di ristrutturazione, taglia quest’anno il traguardo dei suoi primi 45 anni. Fu infatti inaugurato nel 1980 e ha una storia importante alle spalle, fatta di epiche contese tra Comuni, con «in campo» anche storici parroci (di quelli che forse, in qualche modo, hanno a loro volta ispirato la penna superlativa di Giovannino Guareschi) come don Celso Ghiozzi di Zibello e don Martino Aletti di Isola Pescaroli. 
Rivalità, contese e gelosie a parte, era evidente la necessità di un collegamento tra le due sponde ed il risultato, alla fine, 45 anni fa, è stato raggiunto. Ma la sua storia ha, tra le sue «pieghe», ha vicende interessanti che ben conosce Gaetano Mistura, ex sindaco di Zibello, custode tenace e attento della storia locale. A proposito dell’inaugurazione del 1980, Mistura ricorda che «molto si scrisse anche in relazione al viscerale antagonismo che anni addietro, tra il 1948 e il 1952, si scatenò tra il comune di Zibello e quello di Roccabianca, che ambivano entrambi ad averlo sul proprio territorio. Nel 1987, a mia volta avevo scritto per Pov, un bollettino parrocchiale voluto e sostenuto da don Paride Godi (indimenticato parroco di Pieveottoville), un breve pezzo nel quale, vergando il “de profundis” del vagheggiato progetto di un ponte di barche sul Po nella nostra zona, avevo avuto modo di sottolineare l’impegno di don Ghiozzi affinché l’opera trovasse la sua realizzazione in comune di Zibello.
 
La diatriba, senza esclusione di colpi, tra i due comuni di Zibello e di Roccabianca. Quando scrissi il pezzo per Pov – prosegue - avevo svolto una accurata ricerca per capire come si era svolta tutta la vicenda della quale ancora in quegli anni (eravamo nel 1987) si ricordavano gli accesi contrasti. Nell’occasione - prosegue - avevo letto tutte le delibere di Giunta e di Consiglio del Comune di Zibello, articoli di stampa, e una pubblicazione scritta ad hoc per celebrare l’evento. Ho letto anche un trafiletto di giornale in cui si parlava dell’impegno di don Celso a favore del ponte a Zibello. Avevo dato atto a don Celso Ghiozzi di essere stato lasciato troppo solo nell’impari lotta, con gli accesi contorni politici, che vedeva contrapposti i due comuni. Troppo forte era la contesa e don Ghiozzi, che pure si fece autorevole interprete delle ragioni di Zibello, si trovò vaso di terracotta fra vasi di ferro, per dirla col Manzoni. La disputa aveva forti, ma molto forti connotazioni politiche (ricordate i film di Peppone e don Camillo? Ebbene quelli erano i tempi, quei film non sono una favola, la realtà era quella). Quando poi nel 1950 la Democrazia Cristiana a Zibello conquistò il comune, con Manfredi sindaco e Roccabianca si confermò socialcomunista con in testa il sindaco socialista Tonna, lo scontro si fece ancor più aspro ed ognuno dei due enti mise in campo ogni sua risorsa per avere la meglio. Zibello – aggiunge - alla fine ebbe partita vinta e acquistò, per 600mila lire, il materiale dismesso del ponte di barche di Cremona, che rimase accatastato per un paio d’anni in prossimità del porto vecchio, luogo nel quale si pensava di allestire il manufatto, anche per la ragione che lì esisteva già la via di accesso o, almeno, quella che poteva diventare la via di accesso (strada Al porto)».
Di quel «materiale dismesso» si è purtroppo persa traccia. Come si legge in una lapide marmorea sistemata sulla chiesetta di San Luigi Gonzaga a Zibello è noto che nel 1948, a Zibello, si costituì il «Comitato del ponte di chiatte» con lo scopo, ovviamente, di costruirne uno. Lo componevano Giuseppe Usberti (presidente), Giuseppe Cavalieri (vicepresidente), Pietro Accarini (sindaco), Teredo Alinovi, Alberto Assali, don Celso Ghiozzi, Pietro Merli, Giuseppe Concari, Aurelio Manfredi, Giovanni Tragni, Biagio Riccardi. Con la sottoscrizione di 1.048.050 lire acquistò il ponte di chiatte di Cremona e due barconi di cemento. Il sindaco assicurò l’appoggio materiale e morale del consiglio. Sembrò cosa fatta, ma così non fu. Il sindaco Accarini si recò tre volte a Roma per chiedere aiuti. Ma alla fine emerse l’impossibilità di formare il consorzio fra i comuni interessati, così come si evidenziò il costo di manutenzione troppo elevato rispetto all’esiguità dei fondi. Alla fine il comitato rinunciò all’impresa e restituì ad ognuno il suo per poi sciogliersi. Ma è doveroso tornare al racconto di Gaetano Mistura, che afferma: «Una cosa credo che ancor oggi possa far sorridere ed è che il ponte verrà realizzato trent’anni dopo, ma dove? A Ragazzola, in comune di Roccabianca (con la via di accesso per metà in territorio di Pieveottoville). La “vexata questio” Zibello – Roccabianca ebbe fine, con buona pace di tutti e forse questa soluzione se la sarebbe fatta andar bene anche don Celso. A questo punto mi viene da fare una riflessione un po’ nostalgica e del tutto personale sul valore che avrebbe potuto avere il ponte di barche. Costruito all’inizio del boom, quando l’impulso socio-economico aveva ben altra spinta, il ponte forse avrebbe potuto lasciare segni più tangibili in termini di sviluppo. Va considerato però che si trattava di una struttura anacronistica. Quando ormai i trasporti non erano più costituiti da carriaggi trainati da cavalli e buoi e il traffico veicolare era in vertiginoso aumento e ben più pesante. Un ponte di barche, con costi di manutenzione e di mantenimento spropositati, sarebbe stato decisamente fuori dal tempo.
 
E’ questa, in sintesi, la vera ragione per la quale l’idea del ponte di barche fu lasciata cadere, vendendo all’asta nel 1952 il ferro di risulta come ferro vecchio. Un’ultima riflessione – ricorda - nei primi anni ‘50 tutti i ponti di barche furono ricostruiti in cemento, vedi Casalmaggiore, Guastalla, Boretto ecc., ci fosse stato anche da noi un ponte di barche (e questa era la prospettiva dei nostri amministratori), forse ne avremmo avuto uno in cemento anche noi quando poteva veramente servire e rappresentare un fattore di promozione e di sviluppo territoriale, ma, come si sa, la storia non si fa né con i se né con i ma. La conclusione che si può trarre da questa storia è tuttavia un’altra. Ed è che i paesi collegati, con il nuovo ponte hanno tratto scarsi benefici, sia al di qua, che al di là del Po. E’ come se il ponte passasse sopra la testa delle popolazioni residenti senza lasciare traccia. In questi luoghi l’economia modesta era e modesta è rimasta. Lo dimostra lo spopolamento continuo, una espansione urbanistica irrilevante, pochi o nulli i commerci. Sì, se vogliamo, tragitti più brevi per raggiungere Cremona e i centri delle due pianure e complessivamente una migliorata mobilità nei due entroterra. Da ultimo – evidenzia Mistura - mi piace ricordare, affinché non se ne perda la memoria, la genesi del “Ponte Verdi”. La sentii raccontare dall’allora presidente della Provincia Geom. Sensini che, in una riunione conviviale, riferì come fu che riprese corpo l’idea di un ponte nella nostra Bassa. Era in programma una visita a Parma dell’On. Lauricella, Ministro dei Lavori pubblici. Generalmente in situazioni del genere le amministrazioni pubbliche locali cercano di approfittarne per avanzare richieste per questioni urgenti e di interesse dei propri territori. Probabilmente nei cassetti dell’Amministrazione provinciale giaceva ancora la vecchia idea di un ponte sul Po e le circostanze potevano essere favorevoli per riesumarla. Fu quindi elaborato un progetto di massima che venne presentato al Ministro che lo ritenne meritevole di accoglimento e assicurò un finanziamento di 800 milioni, che diventerà poi di un miliardo e che non si poteva perdere».
L’ubicazione sul fiume «fu invece determinata non da scelte campanilistiche come avvenne per il ponte di barche - prosegue -, ma dal fatto che quello in cui giace il ponte è il punto dove il letto del fiume è più stretto. Il progetto originario prevedeva l’impalcato solo sull’alveo. E’ evidente che laddove l’impalcato fosse stato più breve, minori sarebbero stati i costi per la sua realizzazione. La strada per raggiungere il viadotto invece sarebbe stata realizzata a raso in tutta l’area golenale. Il rischio delle esondazioni fece però considerare l’opportunità di una sopraelevata, almeno nella parte di golena aperta. Questo comportò maggiori oneri e il reperimento di nuove risorse, che a sua volta comportò un ritardo nell’inizio dei lavori. Il viadotto fu quindi realizzato, in sponda cremonese (dove non c’è golena), ancorandolo all’argine maestro e in sponda parmense ancorandolo all’argine di comprensorio, con una strada a raso in golena protetta per raggiungere l’argine maestro. Con i suoi 3663 metri è il ponte più lungo d’Italia. Costò quasi sei miliardi e comportò quattro anni di lavoro».
Paolo Panni