Gregorio e Francesco: "Il grido "bomba!", poi la bolgia. Salvi per miracolo"
Gregorio Guiggi e Francesco Ubaldi, diciottenni, studenti del Liceo Ulivi, sabato si trovavano in piazza San Carlo a Torino, quando la finale di Champions si è trasformata in un incubo dal drammatico bilancio di 1527 feriti. “Eravamo arrivati in treno da Parma al mattino - raccontano - per conquistare i primi posti, entrando in piazza verso le tredici, con l’occorrente per la lunga attesa: qualcosa da mangiare, acqua e bottiglie di birra”. Anche di vetro. Nessun controllo agli accessi. Affluenza proseguita liberamente fino alle 17 circa. “A quell’ora – ricorda Gregorio – secondo me in piazza eravamo 15.000. Intorno vedevo soprattutto ragazzi giovani o padri con i figli. Noi eravamo sotto al maxischermo, davanti alla transenna, un po’ spostati sulla sinistra: al centro erano gli ultras della Juve e sulla destra i daspo, ma l’atmosfera era tranquilla, senza tensione: tutti riuniti a tifare la stessa squadra, cantavamo insieme i cori juventini”. Pomeriggio un po’ pesante per il gran caldo, ma la passione per la squadra da sempre nel cuore vale la pena. Inizia la partita: il primo tempo scivola via tranquillo, qualche fumogeno d’ordinanza, con il cuore che batte a ritmo di pallone. Verso il 70°, all’ improvviso, il boato che trasforma una gioiosa comunità di sportivi uniti nella fede bianconera in un esercito di 30.000 persone al massacro. Lo descrive Gregorio: “Verso le 22 sento un rumore sordo, mi giro e vedo tutta quella gente venirmi addosso. La transenna cade e io comincio a correre disperatamente. Per fortuna nella zona davanti a me non c’era nulla per terra, essendo l’area riservata ai giornalisti e alle tv, mentre appena più indietro era pieno di vetri rotti, scarpe, oggetti vari. Ho sentito più volte gridare: la bomba!”. Accalcati, restare in piedi è un’impresa. Il pensiero vola all’attentato, ma gli eventi precipitano e scappare diventa la priorità. Gregorio e Francesco, travolti, si perdono di vista: il primo riesce a raggiungere via Roma, mentre Francesco viene schiacciato dalla protezione metallica e dai vicini, riesce a liberarsi, cadendo ancora in quella bolgia umana ma di nuovo svincolandosi. Senza accorgersi del ginocchio tumefatto, corre in un sol fiato fino all’albergo. “Il momento più brutto – riflette– è stato quando ero sotto la transenna e non riuscivo ad uscire. Sentivo urlare: bomba, hanno i mitra!”. L’allarme arriva in due fasi. Dopo la prima ondata, con altre grida della folla, la ressa avanza minacciosa. Gregorio vi si trova coinvolto: “Ad un certo punto - ripensa con suggestione - un ragazzo ha aperto la porta di casa sua e ci siamo precipitati tutti dentro: saremmo stati in 150 per le scale del palazzo. Qualche condomino terrorizzato ammoniva di tenere chiuse le porte, altri invece ci portavano da bere”. I due amici, separati dalla furia cieca del panico dilagato per la piazza, a quel punto non sapevano più nulla l’uno dell’altro. Poi, finalmente, il whatsapp: quando online significa in salvo. Adesso Francesco zoppica un po’, ma nulla di grave. Intatta, garantiscono, la fede juventina.