il caso
Donna morta a Trieste, Dna sconosciuto sullo spago, non è del marito nè dell'amico e nemmeno del vicino di casa
Non sono del marito, Sebastiano Visintin, non sono dell’amico, Claudio Sterpin, di 82 anni, con il quale aveva riallacciato una relazione dopo 40 anni, e non sono nemmeno del vicino di casa, Salvatore Nasti, uomo delle forze dell’ordine in pensione, sempre vigile nella vicenda. Ma allora di chi sono le sfumate tracce di Dna maschile trovate sul cordino annodato intorno alla gola di Liliana Serinovich, a fermare i due sacchetti di plastica che aveva sulla testa quando è stato trovato il corpo nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste?
Il Corriere della Sera ha scoperto questo risultato venendo a conoscenza dell’esito della comparazione del materiale biologico estratto dal reperto con i codici genetici dei tre uomini (nessuno di loro è indagato). Ma ancora una volta, come nel gioco dell’oca, messo il piede sulla casella sbagliata, si torna al punto di partenza. Così, neanche questo elemento porta alla soluzione del giallo o fa pendere la bilancia su un lato. Gli inquirenti, che hanno da sempre avvalorato la tesi del suicidio, sostengono che queste tracce di Dna sono tanto sfumate da potersi trattare di una semplice contaminazione. E il caso della donna di 63 anni, scomparsa da casa il 14 dicembre e il cui corpo è stato trovato il 5 gennaio successivo in due sacchi neri nel boschetto non trova soluzione.
Dopo lunghe indagini, la Tac, gli esami autoptici e quelli tossicologici, nulla sembra scalfire il cristallo di una situazione se non incomprensibile almeno strana: sembra scarsa la casistica di persone che hanno messo la testa in due sacchetti di plastica annodati alla gola e poi si sono infilate interamente in sacchi - uno dalla testa e uno dai piedi - prima di suicidarsi. E in quale modo, visto che dagli esami tossicologici non è stata riscontrata l’assunzione di veleni, droghe, farmaci?