bimba morta di stenti
Il gip: "Alessia Pifferi non ha mai avuto disagio psichico". La difesa: "In carcere ha preso schiaffi dalle detenute"
Alessia Pifferi, la 37enne arrestata per omicidio volontario aggravato per aver abbandonato per sei giorni in casa la piccola Diana, la figlia di un anno e mezzo morta di stenti, «anche dopo l’ingresso in carcere (...) si è sempre dimostrata consapevole, orientata e adeguata, nonchè in grado di iniziare un percorso, nei colloqui psicologici periodici di monitoraggio, di narrazione ed elaborazione del proprio vissuto affettivo ed emotivo».
Lo sostiene il gip di Milano Fabrizio Filice, in base alle relazioni del Servizio di psichiatria interna di San Vittore, nel provvedimento con cui ha respinto la seconda richiesta avanzata dai difensori della donna, Solange Marchignoli e Luca D’Auria, per chiedere di consentire alcuni colloqui tra la loro assistita con Giuseppe Sartori, ordinario di Neuropsicologia Forense e Neuroscienze Cognitive all’Università di Padova e Pietro Pietrini, professore di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica all’Università di Pisa, per una consulenza neuroscientifica.
Il giudice nel respingere l’istanza, con cui è stata posta una questione giuridica inedita, fornisce questi elementi per spiegare che la stessa difesa non intende effettuare un’analisi sulla capacità o meno di intendere e di volere della loro assistita, «prospettiva», questa, che «allo stato non si aggancerebbe ad alcun elemento fattuale», non avendo la donna alcuna «storia di disagio psichico» nel suo passato. I due legali, semmai, puntano su un particolare accertamento «neuroscientifico-cognitivo» per «cercare di sondare il funzionamento strettamente cognitivo dell’indagata». E con la «espressa finalità», scrive il gip, di «incidere sul processo interpretativo del giudice», che dovrà valutare nel procedimento l'eventuale dolo dell’azione commessa.
L’ordinanza, poi, chiarisce che ci sono «suggestive adesioni in campo accademico» sul fronte dell’utilizzo delle neuroscienze, ma non si può permettere che una consulenza di questo tipo entri nel processo senza contradditorio. Anche se, afferma, in teoria non si può escludere «una possibile utilità della prova neuroscientifica come supporto al processo decisionale del giudice» purchè sia egli stesso a disporre una perizia sul punto, se la riterrà necessaria.
«Non possiamo arrenderci di fronte all’ennesimo diniego alla richiesta finalizzata a capire cosa sia successo nel cervello della nostra assistita. - commentano Marchignoli e D’Auria -. E' troppo facile chiudere la partita bollando Alessia come un mostro bruciandola sul rogo mediatico» aggiungendo che è stato ancora «negato il diritto di difesa. Come se le neuroscienze fossero qualcosa che può entrare nel processo solo per valutare l'infermità mentale, quando invece studiano i percorsi cognitivi e l’intenzionalità di tutte le attività umane». Infine, un particolare riferito sempre dalla difesa: la donna mercoledì scorso, al suo rientro in carcere dopo l’udienza in Tribunale, mentre si avviava nella cella in cui è in isolamento, sarebbe stata avvicinata da una detenuta che le avrebbe dato «un ceffone». (ANSA).