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La Labubu-mania impazza tra consumismo e FOMO: ma alla fine, perché ci piacciono davvero?
Da mesi i social sono invasi da immagini e video di unboxing di questi piccoli mostriciattoli, per cui centinaia di persone affollano il Pop Mart di Milano alla ricerca dell’esemplare più raro
Facciamo innanzitutto un po’ di ordine. Che cosa sono i Labubu? Opera dell’artista e illustratore cinese Kasing Lung, i Labubu sono piccoli mostriciattoli pelosi, dai grandi occhi spalancati e un sorriso a tratti quasi malvagio, costellato di dentini.
Tutto comincia con una serie di illustrazioni. Lung, che vive in Belgio e si lascia influenzare dalle dal folklore nordico, nel 2015 dà vita a The Monsters, una serie di piccoli mostriciattoli dai nomi fantasiosi: Zigomo, Tycoco, Spooky e, naturalmente, Labubu.
Fin qui tutto nella norma, finché, come ogni moda che si rispetti, una multinazionale ci vede lungo. La società cinese Pop Mart, specializzata in giocattoli e statuette in vinile, acquista i diritti di produzione dei mostriciattoli e dà il via ad una produzione serrata, che arriverà anche oltreoceano.
Il vero boom arriva però nell’aprile 2024, quando Lisa - cantante del celebre girlgroup sudcoreano Blackpink - posta sul suo profilo social, che conta oltre 106 milioni di followers, il suo amore per i Labubu, stringendone fieramente uno al petto. L’immagine fa il giro del mondo e i piccoli pupazzetti si moltiplicano, apparendo sulle borse e nelle case di personalità di spicco, tra cui l’attore thailandese Mario Maurer, la politica singaporiana Lam Pin Min e la supermodella vietnamita Thanh Hằng.
Ed eccoci a oggi, forse all’apice della Labubu-mania, per la quale, nel solo weekend scorso, centinaia di persone hanno affrontato file chilometriche dalla durata di ore davanti allo store Pop Mart in corso Buenos Aires, a Milano, per accaparrarsi prima di tutti gli altri un esemplare della nuova collezione di Labubu.
Ma cosa ci spinge, davvero, a ossessionarci per dei pupazzetti che, fino a poco fa, erano pressoché sconosciuti?
Una prima risposta è legata all’effetto “scatola chiusa”. I Labubu sono infatti venduti in “blind box”, scatole sigillate che non rivelano il contenuto. L’effetto sorpresa è dunque massimizzato, scatenando la voglia di collezione e condivisione, portando centinaia di persone a pubblicare i video dei propri unboxing su TikTok, con reazioni più o meno soddisfatte del risultato. C’è chi si accontenta e chi - come l’influencer Chiara Facchetti, simbolo dell’overconsumism - viaggia quattro ore per comprare dei Labubu e, trovandoli esauriti, acquista online un’intera scatola da 300 euro, sperando di trovare il Labubu segreto. Spoiler: si accorgerà solamente in seguito che si trattava della collezione sbagliata e, dispiaciuta, rimanda la soddisfazione al futuro acquisto di altri Labubu.
È inevitabile dunque l’innescarsi della ricerca ossessiva del Labubu più raro, finendo per acquistarne più pezzi o pagando cifre notevoli per una collezione particolare. Alcuni utenti sul web raccontano di aver speso le somme più disparate per un pupazzetto che, nella sua versione standard, dovrebbe costare 20 euro: «300 euro per il Labubu Wings of Fantasy», «149 euro per lo Zimomo», «120 euro per il Macaron Secret».
Un’altra risposta è consequenziale: essendo bombardati quotidianamente da contenuti in cui migliaia di utenti sembrano impazzire per un prodotto, si delinea l’effetto FOMO - Fear of Missing Out -. Una dinamica tipica dell’influencer marketing che trasforma il desiderio in bisogno e il bisogno in consumo, spesso impulsivo, portandoci a mettere mano al portafoglio per paura di rimanere esclusi dalle esperienze “positive” che gli altri stanno vivendo, in un ciclo continuo che non fa altro che alimentare il consumismo e potenzialmente, le nostre soffitte.
Eppure, nonostante tutto, questi mostriciattoli pelosi possono essere davvero carini, evocando un senso di tenerezza e nostalgia che ci riporta all’infanzia, rifugio che risulta salvifico in un mondo che sembra correre sempre più veloce. Si spera tuttavia che il loro acquisto nasca da una volontà autentica e non da un marketing che, anche stavolta, rischia di piegare l’arte al consumismo sfrenato.