Si fa presto a dire Lambrusco
Nel Paese del melodramma, Bruno Barilli scrive di «quella enorme zanzariera che è la valle del Po» dove nacque il genio di Verdi e che era il teatro di «sedizioni fulminee, dei grossi adulterii, dei preti e dei mangiapreti... dei ladri di gatti». Quel popolo, «pieno di una sinistra inclinazione musicale», portava «il tabarro alla spagnola, il cappelluccio calcato sugli occhi» e beveva il «cosidetto vino della bassa, mistura schiumosa e spropositata che faceva bum nello stomaco, dava fuoco ai loro discorsi e aggiungeva risonanza all’umore fondo di questi odiatori del genere umano». Nella Camera da letto, in altri anni e riferendosi a un altro contesto sociale, Attilio Bertolucci scrive di Parma, di «...questa piccola/ capitale della cucina atta a combattere/ inverni senza fine con dovizia di vino/ nero trascolorante in rosa e tanti piatti/ locali affinati dalle ricette di Parigi e di Vienna». Tra questi due estremi, vive il mondo del Lambrusco. Vino del popolo, vino della borghesia; vino sgherro e temerario che fa bum ed esalta istinti e umori fondi, vino fine e gentile che rincuora pallidi gentiluomini alle prese con inverni «senza fine». I nostri scrittori non ne fanno il nome ma quel vino, non ancora stretto in disciplinari che dettano composizione e spazio, è sicuramente Lambrusco, allora come anche oggi mischiato ad altre uve, per lo più a quel che si raccoglieva nei filari, e poi aggiustato in formule più o meno segrete per darne una «mistura schiumosa e spropositata» o per spegnerne il colore cupo in un rosa rassicurante. La geografia del Lambrusco si può allora disegnare seguendone le sfumature del colore, non semplice aspetto esteriore, ma componente rivelatrice della sua anima. A cominciare dal più famoso dei lambruschi, quello di Sorbara e dalla provincia di Modena, la più ricca di produttori. A nord della città, nasce questo vino luminoso che cantinieri lungimiranti hanno saputo vinificare con tecniche moderne eppure legate al fare tradizionale. Sorbara Doc come champagne rosé, fine perlage, spuma dinamica e la natura viperina a riportarci a casa, ad esaltare il territorio coi profumi di piccoli frutti, il corpo leggero snellito da un’acidità sostenuta, citrina, croccante.
Poi anche vinificazioni «ancestrali», ormai praticate in tutte le zone del lambrusco, che prevedono la rifermentazione in bottiglia e il ritorno del «fisso» com’era nell’uso contadino. I lieviti si depositano sul fondo della bottiglia, velano leggermente il colore, specie negli ultimi sorsi, danno sentori intensi, sapore pieno, sempre secco, essendo la declinazione «amabile» caduta in disuso. Nella produzione del vino può essere utilizzata una percentuale non superiore al 40% di Lambrusco Salamino di Santa Croce, anche se molti sono i vignaioli che non la utilizzano. Lambrusco Salamino di Santa Croce che è anch’esso una Doc del lambrusco modenese, nella zona a nord-ovest della città: il colore si fa più scuro, di un rosso rubino di varie intensità, ha buon corpo in equilibrio tra tannini e acidità. Sempre profumi di frutta, pieno, vinoso. Nella composizione del Salamino possono entrare, per un 15% al massimo, anche altri lambrusco, Ancellotta e Fortana, che qui chiamano «Uva d’oro».
L’ultima Doc modenese è quella del Lambrusco Grasparossa di Castelvetro che si esprime al meglio nella parte collinare a sud di Modena con colore meno intenso del Salamino e aromi più fini e complessi, specie in evoluzione. Poi corpo sostenuto, quasi materico: l’equilibrio tra tannini e controllata acidità ne fanno un vino anche austero, ma succoso, con note di frutta e spezie, di beva sempre piacevole. Assieme al lambrusco Grasparossa sono consentiti altri lambrusco e Malbo gentile, non oltre il 15%. Il Reggiano Lambrusco Doc è il più eclettico: la sua composizione, in percentuali libere, prevede per l’85% lambrusco Salamino, Montericco, Marani, Maestri, di Sorbara, Grasparossa, Viadanese, Oliva, Barghi; per il residuo 15% è consentito l’uso di Ancellotta, Malbo gentile, lambrusco a foglia frastagliata, Fogarina. La fantasia e l’estro del vignaiolo, il suo stile di vinificazione, hanno dunque mano libera: il vino avrà tutte le sfumature del rosso, dal rubino al porpora al violaceo, profumi di piccoli frutti e di viola, bocca ampia, carnosa o austera o fresca, a volte note balsamiche, sempre buona acidità.
Anche per il Lambrusco mantovano Doc (sotto zone «Oltrepo mantovano» e «Viadanese-Sabbionetano») è previsto l’uso di uve differenti, da sole o congiuntamente e fino a un 85%: quelle di Lambrusco Viadanese, Ruberti, Maestri, Marani, Salamino, mentre per il restante 15% possono essere impiegate uve di Sorbara, Grasparossa, Ancellotta, Fortana. Qui la coltivazione dell’uva ha radici antiche e Virgilio, nella Quinta bucolica, parla di una Vitis labrusca esistente già duemila anni fa la cui vinificazione fu poi affinata dai monaci benedettini di Polirone. Pure in questo caso, e come sempre, conta lo stile e la mano del vignaiolo che ricorre spesso alla rifermentazione in bottiglia, anche se la maggior parte delle produzioni è ancora elaborata in autoclave. In genere, il Lambrusco mantovano ha colore intenso, tannini decisi e spiccata acidità. Queste componenti possono essere ammansite dalla presenza di varietà più precoci fra cui ricorre spesso l’Ancellotta, che però non appartiene alla famiglia dei Lambrusco».
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