LIBRO
Dalle nostre valli al mondo: emigrati, storie di successo
Una valigia chiusa con lo spago, il vestito quello “buono”, pochi spiccioli in tasca. Ma un sogno custodito gelosamente, a dare linfa e forma ai giorni duri, durissimi, che verranno: costruire un futuro migliore per sé, per i propri cari, per le generazioni che verranno dopo. Sono le “cartoline” del Novecento che ci restituiscono quasi sempre la medesima immagine: magari ingiallita dal tempo ma che nelle menti e nei cuori di chi ha avuto un nonno, un papà, uno zio costretti ad emigrare, non può mai sbiadire.
Dalle valli dell’Appennino parmense in tanti, tra gli anni Venti e l’immediato dopoguerra, andarono a cercare fortuna altrove. All’estero. Il più delle volte al di là di un oceano attraversato al prezzo di mille sacrifici. Veri e propri viaggi della speranza, alla ricerca del riscatto sociale ed economico. Lasciare il nulla per qualcosa di incerto, per certi versi misterioso: è il denominatore comune che abbraccia praticamente tutte le storie, ricostruite talora dagli stessi protagonisti o in qualche altro caso dai discendenti, racchiuse in Do you speak pramzàn? (sottotitolo: Dalle valli al mondo: storie di uomini e donne, storie di successo, Mup editore, il volume di Claudio Rinaldi, direttore della «Gazzetta di Parma», da sabato in vendita (a 10 euro più il prezzo del giornale) con il nostro quotidiano.
Ispirato da una complessa attività di ricerca condotta dall’Unione Comuni Valli Taro e Ceno, il libro ripercorre vita e opere di chi ce l’ha fatta. Un racconto depurato da inutili orpelli, che va dritto al sodo e scuote le coscienze, interrogando il lettore sul senso autentico della vita, sul travaglio esistenziale dell’individuo messo spalle al muro dall’impossibilità di tirare avanti e chiamato ad una scelta coraggiosa. Non certo presa a cuore leggero, sia ben inteso, ma soppesata e immaginata come l’unica via possibile, per sfuggire alla miseria. Alla fame, quella vera.
Le radici, altro elemento in comune, questi uomini e queste donne non le hanno mai dimenticate. Come non hanno mai dimenticato quel fazzoletto di terra da cui ciascuno di loro proviene. Niente in confronto a una metropoli: arrivare a New York, Londra, Parigi non è stato facile, radicarsi da quelle parti per le famiglie ancora più difficoltoso.
E le vicende che dipingono di sentimento la scena sono commoventi, fanno scendere giù ben più di qualche lacrima. Prendete quelle dei fratelli Camisa: Isidoro ed Ennio, partiti da Tarsogno alla volta di Londra, dove si era già trasferita una loro sorella, Fortunata, che insieme al marito aveva avviato un piccolo negozio di generi alimentari, a Soho. Anche i fratelli danno vita un’attività che durante la seconda guerra mondiale però viene requisita - analogo destino per tutte le altre degli italiani, considerati nemici - su ordine di Churchill.
Frank Capitelli, invece, sbarca nella “Grande Mela” a 19 anni. Lavare i piatti, pelare le patate: erano occupazioni umili, eppure ambite da chi non aveva nulla. Capitelli vive nel Bronx, il quartiere più malfamato di New York. L’occasione gli si presenta quando viene introdotto per lavorare al Friars Club, uno dei club privati più gettonati degli Stati Uniti, frequentatissimo da noti personaggi del jet set a stelle strisce e non solo. Rischia di essere licenziato, Frank, perché non spiccica una parola nella lingua del posto. Studia come un forsennato e riesce a conservare il posto di lavoro in quel club di cui in seguito diventerà il manager. Una carriera lunga 55 anni ripercorsa, aneddoto dopo aneddoto, attraverso una quantità sterminata di foto che vedono ritratti, tra gli altri, Jerry Lewis, Paul Newman, Frank Sinatra, Liza Minnelli, Bill Clinton («Sono un repubblicano convinto, ma di lui ho sempre apprezzato il carisma» rivela Capitelli tra le pagine del libro), Pelé.
Storie incredibili. Come quella dei fratelli Lusardi, sbarcati negli States con un diploma professionale - da elettricista Mauro, da tornitore Gigi - e che il loro sogno americano lo hanno costruito facendosi ambasciatori della cucina italiana, “costruendo” un impero della ristorazione. Il primo locale, aperto «senza avere un soldo in tasca», grazie all'aiuto di tanti amici. Uno dei più recenti, invece, creato da Massimo Lusardi, figlio di Mauro, a guardarlo da fuori sembra una ferramenta: dentro, però, si servono alcolici, come «si usava fare ai tempi del proibizionismo».
A Londra ha messo radici la famiglia borgotarese Cacchioli: Giuseppe, con le mance della zia, comprava la cioccolata dai soldati americani e la rivendeva, facendo qualche sterlina. Dopo aver messo su famiglia, apre il “Queens Restaurant”. Suo figlio Andrea non ne ha voluto sapere di fare l'avvocato, come Giuseppe avrebbe desiderato: ha preferito seguire le orme paterne.
Roberto Cardinali, insieme ai suoi, ha creato una catena di snack bar. Il primo, il “Cardinals”, viene inaugurato nel giugno del 1962: «Per un emigrato avere un locale tutto suo è una soddisfazione impagabile». Ne avrà anche altre, il signor Roberto, nei decenni successivi. Il suo cuore è sempre lì, incastonato a Borgotaro, dove ancora oggi ama trascorrere i suoi tre mesi di vacanza.
Sergio Costa, invece, è «l'uomo che insegnò alla nazione britannica ad amare il caffè». «Così scrisse il “Times”», ricorda adesso la figlia Monica. La miscela vincente? Quella subito ribattezzata «Mocha Italia». E così espresso e cappuccino diventano subito abitudini consolidate nelle giornate dei londinesi.
Il gelato è al centro dell'intuizione della famiglia Federici, poi diventata Frederick. Mattia-Matthew ha conosciuto il clima delle Ice cream wars, le guerre dei gelatai che potevano sfociare in liti violente quando qualcuno “sconfinava”, andando a vendere il proprio prodotto nelle zone dei colleghi. Da un furgoncino ad un'azienda, con un marchio che entra nei supermercati ed una produzione - la fabbrica è vicino Liverpool - in costante aumento. Le choc ices, barrette di gelato ricoperte di cioccolato, si rivelano un successo.
Con la Valtarese Foundation, Mario Gabelli sostiene oggi il percorso di tanti giovani studenti. Lui, nato e cresciuto a New York ma con un nonno originario di Solignano e la mamma di Valmozzola, che grazie proprio alle borse di studio ha potuto laurearsi e poi fondare quella che adesso si chiama Gamko Investors, colosso mondiale nel campo della consulenza finanziaria. Un impero che lo ha reso oggi uno dei 400 uomini più ricchi degli Stati Uniti d'America. Il fiuto per gli affari, Gabelli, d’altronde lo ha sviluppato fin da piccolo. A cinque anni lucida scarpe alla stazione. Poi, facendo il caddie sui campi da golf ascolta e assorbe come una spugna tutto ciò che i potenti dell’epoca si raccontavano, tra un colpo e l’altro sul green. Con quei miseri dollari racimolati, Gabelli inizia a comprare azioni. Nel frattempo si laurea, segue un master alla Columbia Business School, muove i primi passi nel mondo del lavoro all'interno di una società di brokeraggio e, infine, si mette in proprio.
Boccolo è il punto di partenza del viaggio del nonno di Margherita Fulgoni Cavanna. Destinazione Parigi. Il suo mestiere è quello di “scaldino“, addetto incaricato di sistemare il carbone nelle caldaie. Sveglia alle 3 del mattino, interminabili giri a piedi fino a sera. Il papà di Margherita, Paolo, in Francia avvierà un’azienda specializzata nel montaggio e nella manutenzione degli impianti di riscaldamento. Assumendo amici, figli e parenti di conoscenti, dando così loro lavoro, la possibilità di richiedere un permesso di soggiorno. In una sola parola, un avvenire.