8 settembre 1943: l'amaro destino del Treno ospedale 17. Una storia ritrovata

Chiara Cacciani

 Il punto, qui, è che da quell’8 settembre del 1943 a Parma si è perso un treno. 
 Il treno «fisico»- i 14 vagoni più la motrice che costituivano il Treno Ospedale della Croce Rossa numero 17, dotato di sala operatoria, infermeria e 200 posti letto - tornò in realtà in piazzale Dalla Chiesa e ripartì poi per altri recuperi di soldati feriti o malati sui fronti di guerra. E’ con ogni probabilità quello che si vede nella foto in fondo a questa pagina, scattata nel 1944 dopo uno dei bombardamenti Alleati sulla città.
 Solo ora invece, a 77 anni di distanza, la vicenda particolarissima del suo equipaggio sanitario-  sta facendo il suo ingresso nella stazione della Memoria collettiva ed è in grado di restituire un pezzetto di storia privata alle famiglie dei militi. 
 Militi in tempo di pace e militarizzati come sanitari in tempo di guerra, erano arrivati in Germania per riportare a casa i feriti tedeschi e pensavano di ripartire nel giro di qualche ora. Ma – drammatica beffa del destino - erano le stesse ore dell’annuncio dell’armistizio italiano e nonostante le tutele internazionali garantite alla Croce Rossa, la destinazione assunse un nome inaspettato: campo di prigionia.
 A capire che ci fosse il puzzle di una storia grande e piccola in mezzo a documenti che la sfioravano soltanto, è stato l’archivista Andrea Di Betta, presidente dell'ANCFARGL di Parma. Durante una ricerca per i 150 anni della delazione Cri di Parma, nel database della «Casa del reduce» si è imbattuto nelle schede di quattro internati in Germania con un curioso comune denominatore: il Treno Cri n.17. Ed è così che ai primi nomi di Mario Marazzini, Ferruccio Tronchi, Arnaldo Ziveri e Amleto Zoni si sono presto aggiunti quelli di Enrico Chiari, Gino Dall’Olio e Mario Spotti. E tanti ne mancano: su ogni treno ospedale erano una cinquantina ad affiancare 8 ufficiali medici e farmacisti e cinque crocerossine, probabilmente molti altri i parmigiani. 
Per tre di loro i discendenti sono stati rintracciati, altri potrebbero trovare qui nomi e collegamenti capaci di ricucire il proprio patrimonio di memorie familiari. 
 La vicenda parte il 5 settembre 1943, quando il Treno Ospedale si muove in direzione Germania per coprire «600 km costellati di soste per il rifornimento, allarmi aerei ma anche stop improvvisi per consentire ai convogli militari di preparare l’imminente occupazione della penisola italiana», ricostruisce Di Betta. Su quel treno almeno due inservienti - Ziveri e Zoni – in 10 mesi di servizio hanno già partecipato a 9 viaggi: sei verso la Germania, uno in Yugoslavia e due – i più rischiosi – verso la Russia.  
 L'8 settembre il carico di soldati tedeschi feriti sul fronte italiano è dentro ai confini del Reich e il «nostro» n.17 è in sosta alla stazione di Hoffenburg, in attesa di ripartire. Ciò che accade lo si legge nella dichiarazione resa (e oggi ritrovata) da Gino Dall’Olio al rientro dalla prigionia e tenuta valida anche per gli altri. E’ in realtà alle 10 del 9 settembre che apprendono dalla radio dell’armistizio: poco dopo vengono circondati dai soldati nazisti e portati in una caserma. E a quel punto il dilemma dei tedeschi su come considerarli - se membri di un esercito nemico o protetti dalle convenzioni internazionali come militi Cri – fa sì che ricevano il piastrino di prigionieri di guerra ma pure la stessa razione di cibo dei soldati del Reich; che il 20 vengano fatti risalire sul treno in vista del ritorno in Italia e il 24 fatti scendere, coperti d’insulti e accompagnati al campo di concentramento della città. A quel punto si era deciso di far valere il Regio decreto voluto dal regime fascista, che nel ’36 aveva militarizzato il personale della Cri assoggettandolo ai Distretti militari. 
 Con il nuovo status  di internati militari vengono inviati a Strasburgo come personale d’assistenza del Padiglione di medicina e chirurgia dell’ospedale militare, dove patiscono comunque per il cibo scarsissimo e la disciplina «burbera», come riferì Dall’Olio.
 E poi la nuova beffa: il 19 luglio del ’44 le autorità germaniche consegnano loro il foglio di liberazione della prigionia, autorizzandoli a rientrare. Un modo per far sì che senza proteste arrivino in treno a Mosburgo e lì capiscano il senso di quella libertà: liberi sì, ma solo di lavorare per il Reich, costretti sotto minaccia della fucilazione all’impiego nel campo di concentramento e alle dipendenze dei proprietari terrieri. Ridotti «a simulacri di esseri viventi» - fino a fine guerra.
Dei sette «ritrovati», Zoni era  stato rimpatriato nel ’44 per gravi problemi ai polmoni, Spotti - nonostante fosse malato - parte da solo appena vede i sorveglianti tedeschi in fuga. Gli altri 5 si avviano insieme quando nel campo fanno il loro ingresso gli Alleati.  Casa non può più attendere.

 

 

Le famiglie rintracciate: «Una grande emozione scoprire nuovi pezzi di memoria»

 

 

La telefonata che li riportava ad allora, a quell’8 settembre 1943 dei nonni, è arrivata inaspettata. E ha riaperto un diario familiare che per molti era fatto di poche pagine, qualche fotografia «muta», aneddoti a cui mancava una cornice: il destino del treno Cri n.17, appunto.
 «La storia del treno ospedale mi porta nuove emozioni – si commuove Pier Giovanni Coppola, il maggiore tra i nipoti di Enrico Chiari  -. Il nonno non parlava volentieri di quegli anni, probabilmente per quello che erano stati costretti a subire. Oggi mi dico che avrei dovuto insistere di più con lui per sapere: quando sei giovane e senti certi racconti, credi che in fondo ci sia un po’ di fantasia. Invece è tutto vero».
Coppola è arrivato insieme ai  fratelli Elisabetta ed Enrico all’appuntamento organizzato da Di Betta per consegnare alle famiglie «ritrovate» i documenti che le riguardano e ad aiutarle a leggerli nel contesto della Storia grande. 
All’incontro, avvenuto prima del lockdown nel (non a caso) rifugio antiaereo del San Paolo -  c'erano anche i discendenti di Mario Spotti. Una dei figli di Ferruccio Tronchi, Angela, è stata rintracciata subito dopo. 
Un'occasione, per tutte le famiglie, per mettere insieme i tasselli dei racconti, di aggiungerne altri mancanti, di rintracciare e confrontare le poche foto e di trovare in quelle in possesso degli altri la gioventù di un volto amato.
 «La nonna, Domenica Ravanetti, raccontava con orgoglio di quel che era riuscita a fare da sola in quegli anni, quando con le figlie Elisa e Rosa era sfollata a Pastorello. l'aiuto che era riuscita a dare ai partigiani pur tra tante paure - spiegano i Coppola -. Il nonno, che al ritorno fu assunto da un’azienda di legnami in viale Fratti, invece preferiva il silenzio».
 Aveva accennato alla Croce rossa, al freddo e alla fame patiti in Germania, «ai pacchi mandati dalla nonna ma niente foto: quando gli arrivò quella delle figlie rischiò di essere fucilato. Gliela strapparono davanti agli occhi».
«Un giorno, durante un viaggio, passammo nelle vicinanze di Mosburg e nostro padre ci disse: “Qui c'era il nonno”- raccontano Maria Chiara e Pier Giacomo Spotti, nipoti di Mario - La testimonianza che abbiamo ritrovato coincide con i ricordi tramandati e aggiunge qualcosa di più».
 Aveva partecipato anche alla Prima Guerra Mondiale, Mario, poi aveva ripreso il lavoro nella serra di famiglia, la Spotti Cavalieri in via Mantova. Le sue competenze furono sfruttate da qualche alto ufficiale tedesco per il proprio giardino e nella prima parte della prigionia gli permisero di avere qualcosa in più da mangiare. Morì però poco dopo il ritorno, nel 1949. «La narrazione di famiglia dice che avesse contratto una pleurite cadendo in un fossato mentre rientrava al campo dal lavoro nell'inverno del 1945. Purtroppo alla liberazione decise di partire per Parma senza aspettare gli Alleati, che avrebbero potuto curarlo in tempo». 
«Mio padre parlava spesso del treno ospedale, dell'esperienza del soccorso in Russia, del freddo eccezionale, con l'acqua dei pozzi che la tiravi su e gelava immediatamente, ma poco della prigionia.  Ricordo che citava un compagno, Delbono, che con quattro ferri aveva imparato a fare i calzini a maglia per tutti disfacendo le coperte – racconta invece Angela Tronchi -. Lavorò poi come uomo di fiducia del professor Bufano alla facoltà di Medicina, addetto alla sterilizzazione dei materiali. E amava viaggiare: d'estate ci portava in giro per l'Europa. A Strasburgo ci raccontò che andava lì all'ospedale a portare i feriti. Facemmo tappa a Hoffenburg. visitammo Mathausen e Dachau». «Conobbe mia madre Maria perchè lui che era infermiere andava a fare punture nella casa in cui lei era a servizio. Pensi che quando partì per la guerra le disse: "Non so se torno”». Il destino scelse per loro una sola parola: tornò.
 C.C.