Sebastiano Barisoni «Rivoluzione in corso: una rotta per il futuro»
Siamo nel mezzo di una rivoluzione, navighiamo in mari sconosciuti. Sebastiano Barisoni, vicedirettore esecutivo di «Radio 24» e conduttore del programma quotidiano «Focus economia», prova a tracciare una rotta per il futuro nel libro «Terra incognita. Una mappa per il nuovo orizzonte economico». In questa intervista spiega la crisi pandemica che stiamo vivendo e il “nuovo mondo” che ci aspetta.
l concetto alla base della tua “mappa” è che viviamo una crisi sanitaria, non paragonabile alla crisi del 2008 o alla Grande depressione. Allora si era inceppato il motore dell’economia, oggi l’emergenza coronavirus ha amplificato il problema di una mancata crescita.
«È un elemento di analisi e di speranza. Io penso che l’impatto a breve di questa crisi sull’economia potrebbe essere minore di quanto non immaginiamo. Mentre nel 2008 e nel 2009, e anche nel 2011-2012, il problema era il funzionamento della finanza – tra eccesso di rischi e eccesso di titoli tossici – e nel ‘29 il problema fu di sovracapacità produttiva e di eccesso di quotazione di Borsa, questa volta la crisi economica non deriva da un problema economico. A inizio anno le economie occidentali crescevano benino, non c’era nessuna bolla o surriscaldamento. Questa è una crisi pandemica che ha avuto ripercussioni economiche: e probabilmente, se ne usciremo in tempi rapidi, il motore dell’economia – che non era ingrippato – potrà ripartire bene e più velocemente rispetto al 2009: allora sì che il motore era inceppato».
A cosa è dovuta la rivoluzione in atto?
«Né al Covid, né alla crisi finanziaria del 2008, né alla globalizzazione: questo è l’assunto del libro. È dovuto all’esplodere del web, inteso come la capacità di confrontare l’offerta di beni e servizi su scala planetaria, indipendentemente dal luogo in cui risiedi. Cosa che dà un enorme potere al consumatore, che questa volta ha il coltello dalla parte del manico, rispetto al passato, quando chi offriva aveva più informazioni di chi comprava. È la famosa teoria di Daniel Kahneman, quella che gli ha fatto prendere il Nobel. Adesso è il contrario: e questa è la vera rivoluzione».
Perché parli di «rivoluzione schizofrenica»?
«Perché è una cosa bellissima finché sei fuori dallo schermo, sei tu che scegli il prodotto, il bene o il servizio. Ma è un incubo quando sei dentro lo schermo: perché sei sottoposto al confronto con tutte le offerte e tutte le informazioni su scala planetaria».
C’è, da anni, da molto prima del coronavirus, un senso di disorientamento.
«Mi sono sentito chiedere in mille convegni “ma quando finirà questa crisi?”, anche dopo che la crisi finanziaria era passata. Ho scritto il libro proprio per provare a dare una risposta a questa domanda, che era di pancia, non di testa. E mi sono rifatto al concetto di “retropia” di Zygmunt Bauman: quando hai come unico futuro il tuo passato, rendi utopico il passato e non vedi il futuro chiaramente, ti senti spaesato. La causa non poteva essere la crisi finanziaria, e neanche la globalizzazione, che ha fatto tanti danni, ma ha anche portato molti benefici in Italia, facendo aumentare enormemente l’export di prodotti di fascia medio alta».
Qual era la vera causa?
«Il problema era che, mentre affrontavamo la tempesta della crisi e cercavamo di reagire, la nave, senza che ce ne accorgessimo, era andata oltre le colonne d’Ercole: era entrata in un mondo nuovo, in terre e mari sconosciuti. E quindi c’era un forte senso di spaesamento. Un conto è avere paura, ossia calcolare il rischio, un conto non avere punti di riferimento. È molto diverso. Quindi la domanda vera era: quando torneremo a vivere come prima? Quando torneremo a fare quello che facevamo nel mondo di prima?».
Ma quel mondo non tornerà più.
«Qui sta il punto. Se non capisci che non è una crisi ma una rivoluzione, tendi ad adottare pratiche del vecchio mondo, che nel frattempo è scomparso. Non basta dire che il fatturato nel 2018 è tornato a livelli più alti del 2008, perché questo non dice niente, bisogna capire in che mondo hai fatto questo fatturato».
Un mito che sfati è che non è la nave più grande ad avere maggiori possibilità di successo di fronte ai grandi cambiamenti.
«In alcuni casi questo paese, che pure ha grandi caratteristiche per riuscire a gestire una terra incognita, ha la tendenza a non accettare la sfida, a trovare delle scuse. Una di quelle che sento più spesso è che questa globalizzazione, questa rivoluzione si gioca solo con i colossi. Non è così: faccio notare le prime cinque società per capitalizzazione a Wall Street non esistevano 15 anni fa e che colossi come Ibm, Ericsson, Nokia, Motorola – che 15 anni fa erano colossi – oggi sono quasi scomparsi dalle cronache. Darwin diceva che nel processo di selezione naturale non vince la specie più forte, ma vince la specie in grado di adattarsi alle circostanze esterne: è così anche oggi».
L’importante, quindi, è accettare la sfida?
«Sì, bisogna crederci. E anche capire che quando sei in una terra sconosciuta, l’errore è implicito nelle cose, si procede per tentativi».
In mezzo a queste crisi e queste rivoluzioni, che fine avrebbe fatto l’Italia, se non ci fosse l’Europa (più o meno) unita?
«Noto con piacere che tutti i grandi teorici del ritorno alla Lira e dell’uscita dall’Europa se ne stano abbastanza zitti, adesso. Io ho molto criticato la gestione ragionieristica dell’Europa nel 2012, all’epoca della crisi greca, e quella, molto miope, degli anni successivi. Ma oggi la stessa Germania, che era stata il paladino di quella politica, adesso ha cambiato completamente rotta. L’Europa sta facendo qualcosa che era impensabile solo qualche anno fa: ha capito che è necessario condividere il rischio sui debiti, che se non tengono tutti i paesi non tiene più il mercato unico europeo. Girerei la domanda a chi fino a ieri continuava a chiedere l’uscita dell’Italia dall’Europa. Cosa avremmo fatto con la Lira in questo momento? Cosa avremmo fatto da soli, senza Europa? Che rispondano loro. E che nessuno dica che avremmo fatto come la Gran Bretagna. Perché non siamo la Gran Bretagna, noi».
A proposito di globalizzazione. Citi tanti esempi che a noi hanno portato grandi benefici.
«La globalizzazione delle merci l’abbiamo già avuta a Venezia, che è stata costruita globalizzando il sale e le spezie asiatiche. L’impero britannico è stato generato globalizzando una materia prima che veniva presa negli Stati Uniti o in India, lavorata in Gran Bretagna e poi rimandata nelle colonie per essere comprata. Ecco perché a me non convince che sia la globalizzazione sia il vero motivo della rivoluzione. Poi, è ovvio che la globalizzazione porta sempre vincitori e vinti e fa morti e feriti. Io sono molto critico con le classi dirigenti che non hanno saputo difendere il contado, quelli che Baumann chiama i sedentari, cioè chi non si è potuto muovere, chi ha solo subito le ondate di globalizzazione. Noi abbiamo affrontato la globalizzazione in maniera acritica, anche la sinistra, immaginando che fosse solo positiva. No: purtroppo la globalizzazione è stata troppo veloce, ha anche causato la distruzione di posti di lavoro. E, soprattutto, non si è creato quel mercato che avremmo potuto immaginare nei paesi emergenti».
Nel libro citi la regola delle tre “i”: le rivoluzioni sono indistinte, irreversibili e imprevedibili.
«L’ispirazione viene da Thomas Khun, grande studioso della rivoluzione. Le rivoluzioni sono indistinte, cioè non fanno differenza, un po’ come la livella di Totò, mentre le crisi vanno a colpire alcuni settori più di altri, e soprattutto dopo una crisi si torna al livello pre-crisi. Sono irreversibili, nel senso che l’idea retropica di poter tornare nel mondo conosciuto non esiste più, nel momento in cui si sono staccati gli ormeggi e sei finito in una terra incognita. E infatti tutti i tentativi di tornare indietro sono disastrosi, nella storia delle rivoluzioni. Sono imprevedibili, che è la caratteristica più fastidiosa. Cioè tu capisci il portato di una rivoluzione solo alla fine».
Empatia contro algoritmo, intelligenza emotiva contro intelligenza artificiale. Vince sempre il web?
«Una domanda viene spontanea: se globalizzazione è questa io devo subire il web? Devo essere scelto in maniera quasi passiva? La risposta è no. C’è un elemento che ti porta fuori dall’algoritmo ed è il valore aggiunto che sai dare. L’empatia e la consulenza – che è empatia – sono valore aggiunto allo stato puro. Mi spiego: se il tuo ruolo è solo quello di prossimità, e cioè vieni scelto perché sei il negozio più vicino, allora non fai molta strada. Idem se vieni scelto solo dall’algoritmo: vivi una vita precaria. Se però esprimi qualcosa che l’algoritmo non è in grado di dare, allora il discorso cambia. Tutti gli studi dicono che l’intelligenza artificiale è ancora di là da venire e non riuscirà mai ad avere lo stesso livello di empatia, cioè a capire cosa vuole il tuo interlocutore, che è l’essere umano. Quindi, non sarai scelto solo dall’algoritmo, ma anche per qualche altro motivo».
Quindi vince l’empatia?
«Dipende. Se un assicuratore o un operatore di banca deve solo collocarmi i prodotti che ha, allora ve bene anche l’algoritmo. Ma se invece inizia a profilarmi e a capire come sono fatto io, allora non c’è algoritmo che tenga. Lo stesso vale per il mondo del commercio: se il negozio è solo una vetrina di prodotti che trovo in rete, va poco lontano. Ma se il negoziante ha capacità di fare consulenza – di qualsiasi tipo: su un capo d’abbigliamento o su una polizza assicurativa, su un viaggio o su un’auto da comprare – allora l’algoritmo non basta».
Facciamo un esempio.
«Questa rivoluzione colpisce in tutti i settori, anche nel giornalismo. Fino a 10-12 anni fa noi giornalisti eravamo i soli ad avere l’accesso alle fonti primarie, le agenzie. Quando andavo a un convegno e mi veniva chiesto “cosa è successo oggi?”. E io “vivevo” in quanto oligopolista o monopolista delle notizie. Oggi tutti hanno gratis le notizie più importanti, direttamente sul telefonino. Se il mio ruolo dovesse essere solo quello di prossimità, sarei già bello che morto. Ma ai convegni non mi viene più chiesto “cosa è successo oggi?”. Ma piuttosto: “Hai visto cosa è successo? Cosa ne pensi?”. Cioè mi viene chiesta una consulenza, un’opinione. E io “vivo”, come giornalista, perché fornisco una consulenza. Il mio valore aggiunto non è più avere le notizie, ma è saperle interpretare».
Dichiari di detestare gli «spacciatori di previsioni»: ma non si può non chiederti come e quando pensi che usciremo da questa rivoluzione, quando ritroveremo la rotta.
«Non c’è risposta, almeno per ora. La storia delle esplorazioni insegna che è un procedere per gradi, per tentativi. Sarebbe come se avessimo chiesto a Magellano: quand’è che troverai questo maledetto stretto? Ha tentato per due anni di trovare il passaggio, ogni volta è tornato indietro, ma non per questo ha rinunciato».
Quindi serve testardaggine?
«Quel che è certo è che se non accetteremo la sfida e non procederemo per tentativi, anche errando, non arriveremo da nessuna parte, resteremo solo in mezzo al mare. Bisogna anche capire cosa cogliere di positivo da questa terra incognita, dalla rivoluzione del web. La politica può mitigare il tempo, che nelle rivoluzioni è fondamentale, perché il poco tempo crea morti e feriti. Può – anzi, deve – creare reti di protezione per chi verrà escluso o per chi queste rivoluzioni le subirà. È certo anche in questo caso ci saranno vincitori e vinti. Purtroppo nelle rivoluzioni non ci sono mai solo vincitori: Lenin diceva che non sono pranzi di gala. Nemmeno questo sarà un pranzo di gala».