ottobre e novembre 1922
Marcia su Roma: cronaca dei fatti avvenuti a Parma
Come la Gazzetta raccontò gli episodi legati agli eventi nella capitale
Marcia su Roma e reazioni immediate a Parma. Ecco come i fatti furono raccontati dalla Gazzetta.
Venerdì
Il 27 ottobre 1922, il giorno prima della Marcia, la pagina di apertura della Gazzetta (allora formata soltanto da quattro fogli) è occupata dalla notizia degli ottant’anni di Giovanni Giolitti, lo statista che per un decennio aveva saldamente tenuto le redini dell’Italia liberale. Ora, ritiratosi a vita privata, Giolitti guarda con timore la scena politica che si inclina a destra e la violenza squadrista. Al timore si aggiunge il fastidio per i colleghi - e lo stesso presidente del Consiglio Facta - che in quell’autunno 1922 lo contattano a più riprese, quasi lo supplicano di ritornare in campo.
A luglio, in una lettera ad un amico, Giolitti però ha fatto chiarezza: «Sono fuori, ne ringrazio Iddio, e rimango fuori».
È meno sibillino poco dopo, quando, in partenza per le vacanze, ad un facchino che gli domanda come si risolverà la crisi di governo in Italia, risponde: «Siamo nella merda, e ci resteremo».
Così la fotografia, un bel primo piano in bianco e nero, con la catenina dorata che sparisce tra le pieghe del panciotto, più che festeggiare una ricorrenza sembra siglare il funerale di un’epoca.
La nuova era, invece, pianificata da Mussolini fin dall’estate, sta per iniziare.
Nelle prime ore del 27, Pisa e Siena inaugurano le mobilitazioni fasciste: sono occupati uffici postali e caserme. A Roma, mentre le camicie nere cominciano a concentrarsi nel fango dei prati laziali, si decide di procedere con lo stato d’assedio, l’interruzione delle linee ferroviarie e la sospensione dei servizi telefonici.
Manca solo l’approvazione del re. Nel frattempo vengono preparati i telegrammi con le disposizioni per i prefetti, saranno inviati alle 7,30 dell’indomani.
Quella sera convulsa, umida e nuvolosa, i parmigiani ignari l’avrebbero potuta trascorrere al Teatro Reinach, in Piazza della Pilotta, a vedere «La Mandragola» di Machiavelli. Ma visti i contenuti vagamente erotici, «Le signorine» - avvertiva la compagnia con una mossa più di marketing che moralista - «sono pregate di starsene a casa».
Sabato
A Parma, il 28 ottobre di un secolo fa è un sabato nebbioso. Le temperature oscillano tra i 7 e i 9 gradi. Ma, nonostante il freddo, la febbre corre per il Paese: è il giorno dell’azione.
Alle sei di mattina - in anticipo sui telegrammi - cinquecento fascisti convergono sulla città, a guidarli è Enzo Ponzi, comandante militare fascista della provincia. Vengono occupate la Questura e la Prefettura, dai balconi si fanno sventolare le insegne del Fascio. Sono tornato, cent’anni dopo, nel prato retrostante al monumento del Partigiano dove, fino ai bombardamenti del 1944, sorgeva la Prefettura e ho provato ad immaginare i turni di guardia ai gagliardetti sul lungo balcone che dava su un giardino con una statua di Vittorio Emanuele, il secondo. Ma la sosta non può durare a lungo perché da lì la morsa, rapidissima, stringe poste, telegrafi e ferrovie. I tram circolano per tutta la città coperti di tricolori. Gli studenti universitari fascisti sono invitati a presentarsi al comando che viene installato al Caffè Marchesi, su Piazza Garibaldi; lì c’è il filo diretto con Roma, da cui però non arrivano segnali.
Nessuno sa che nella capitale lo Stato è stato circondato, cinto da un assedio che il re, incapace di leggere i segni dei tempi, ha deciso di non riconoscere, lasciando l’esercito nelle caserme.
Il prefetto alle 12,30 riceve un secondo telegramma che sconfessa il precedente: niente stato d’assedio, niente misure contro i fascisti. La città è ancora intontita, il giornale non registra resistenze. Solo nel pomeriggio compaiono sui muri dell’Oltretorrente moltissimi manifestini dattiloscritti che invitano la popolazione a rimanere tranquilla e ad evitare gesti avventati. Autore: Guido Picelli. Ma non è più il tempo della carta che, nell’esaltazione del momento, incontra il fuoco: così alle 17,30 davanti al Reinach vengono radunate e bruciate le copie dell’edizione pomeridiana del Corriere della Sera, poco dopo, davanti alla prefettura, è il turno di quelle de La sera. Il Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini, invece va a ruba. A sera tutti i comuni della provincia sono sotto il controllo degli squadristi, non ci sono stati feriti, si va ripetendo con orgoglio, tutti sono con noi. A Parma intanto i fascisti hanno superato le duemila unità; si dividono in tre coorti e vengono creati degli accantonamenti. Due coorti pernottano nell’edificio scolastico di san Marcellino (dietro strada Farini), la terza nella scuola Tommasini nel borgo omonimo. Si getta della paglia per terra, ma l’euforia scaccia il sonno. Il generale Lodomez, longa manus di un prefetto esautorato, cerca di imporre a tutti i locali di chiudere alle 19, ma i fascisti rialzano le saracinesche e si siedono ai tavolini. Così i caffè, le pasticcerie e le trattorie del centro sono affollati nonostante la pioggia che inizia a cadere, per le strade «c’è un intenso movimento di giovinezza fascista». La notte è tranquilla, solo un faro del Genio militare installato in quelle ore fruga le tenebre dallo scalo ferroviario (oggi viale Fratti) fino a borgo Trinità. Alle 23 le camicie nere crollano sui giacigli. Le comunicazioni telefoniche e telegrafiche con il resto dell’Italia sono state confuse per tutto il giorno, le notizie sbandano, si gonfiano: un giornale napoletano assicura che alle porte di Roma ci sono ormai più di 50 000 fascisti (in realtà sono meno di 20 000).
Domenica
Tutta domenica 29 si consuma in una - annota il cronista - «febbrile, ansiosa attesa». Alla mattina Ponzi ha paralizzato la provincia ordinando la consegna di tutti i mezzi motorizzati e dei relativi «chaffeur»; saranno utilizzati dal comando per velocizzare le comunicazioni. Le auto requisite vengono allineate in Piazzale Cesare Battisti. La tipografia dei mutilati di guerra si mette a disposizione stampando nonostante il giorno festivo. Alle 15 il Bollettino numero 4 annuncia che «in tutta la Bassa, a Busseto a Soragna, a Fontanellato, Fontevivo, Golese, San Secondo, Roccabianca, Zibello, Polesine e Sissa le milizie fasciste mantengono le occupazioni fatte con disciplina perfetta». Due ore dopo, alle 17, un nuovo raduno sotto i Portici del Grano sotto i quali riecheggia la marcia reale. Ma gli occhi sono distratti, la mente lontana, a Roma. I capi fascisti, seduti al Caffè Marchesi, lo sanno: è tutto un teatrino se laggiù non accade nulla. Si interrogano, discutono, fanno ipotesi mentre la pioggia fine lustra i basolati del centro.
Poi arriva. La notizia che cambia il secolo giunge a Parma di corsa alle 21,30. Piove a dirotto quando un telegramma di Attilio Terruzzi, fedelissimo di Mussolini, getta il Caffè Marchesi nell’euforia annunciando che il futuro duce è stato chiamato a Roma; lui che conservava due biglietti del treno, uno per la fuga in Svizzera e uno per il trionfo tiberino, ha stracciato il primo e corre incontro al suo destino per volontà di Vittorio Emanuele III. Enzo Ponzi esce trafelato dal Caffè e raggiunge il centro di Piazza Garibaldi. Lì, stando al cronista, «con parole riboccanti di entusiasmo, comunica la notizia alla folla enorme accorsagli intorno e alle camicie nere plaudenti». La novità corre di bocca in bocca, si diffonde nei locali vicini. Si forma un corteo. Ne ho percorso, cent’anni dopo, il tragitto: lasciata Piazza Garibaldi, i fascisti sfilano per via Cavour svoltando poi in via Melloni.
Cercano una cassa di risonanza, puntano ai luoghi più affollati, arrivano davanti al Teatro Reinach. Quella sera in cartellone c’è il «Farnese» di Duglas Scotti. La rappresentazione viene interrotta, Ponzi sale sul palcoscenico comunicando quanto è appena accaduto al pubblico in sala. Seguono «scroscianti applausi ed evviva a Mussolini e al re». Il gruppo torna verso il comando, in Piazza Garibaldi. Continua a piovere forte, ma l’acqua non blocca la banda che è intanto sopraggiunta e attacca a suonare gli inni fascisti «intermezzati continuamente dagli alalà». Poi, ottenuto un momento di silenzio, Ponzi scioglie l’adunata, ricordando come «anche nell’entusiasmo si debba mantenere la disciplina». Mentre le squadre rientrano negli accantonamenti, vengono suonate le campane del Palazzo del Governatore che richiamano in strada altri cittadini. Solo a notte inoltrata le urla si spegneranno facendo calare un silenzio “rotto soltanto dal passo cadenzato delle ronde”.
Lunedì e martedì
Il «sol dell’avvenir» tramonta all’alba del 30 ottobre insieme alle copie bruciate del giornale socialista L’Avanti, unico quotidiano giunto quel mattino in città. Mentre Mussolini comincia a stilare i nomi dei ministri (saranno presentati al re in serata), a Parma si festeggia. Così a metà pomeriggio ecco arrivare con un treno speciale il battaglione fascista -più di mille persone- di Fidenza. Ci si raduna di
nuovo attorno alla statua di Garibaldi. Mi siedo sui gradini del monumento dove cent’anni fa trovarono posto i capi per arringare la folla che gremiva lo spazio.
Nella notte, infine, l’annuncio della smobilitazione: «Il fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere. Il nostro movimento è stato coronato dalla vittoria, tornate dunque alle consuete opere perché l’Italia ha bisogno di lavorare tranquillamente per raggiungere le sue maggiori fortune». Ma il 31, quando tutto sembra concluso, si comincia a respirare una sottile tensione, anticipata da un banale incidente: in via Mameli uno squadrista si ferisce, facendo partire inavvertitamente un colpo di pistola. Ma è solo il primo sangue. Neanche due ore dopo, mentre il vicequestore Renzanigo insieme ad un drappello di carabinieri passa in rassegna i servizi d’ordine in Oltretorrente, nota Guido Picelli e lo invita alla calma. Picelli annuisce ma ritorna poco in compagnia di cinque Arditi del popolo; sono tutti armati.
I carabinieri cercano di strappare loro di mano i moschetti e ne segue una colluttazione: Picelli, ferito al collo con la canna di uno dei fucili, viene arrestato e portato a San Francesco insieme ai suoi compagni. In tasca gli trovano dei volantini indirizzati alle guardie regie, invitate a reprimere non i sovversivi, ma i fascisti. Quando l’evento si sa al Caffè Marchesi, tutti applaudono. Ma ormai la scintilla si diffonde: al pomeriggio mentre la coorte di Noceto e altre squadre di occupazione sfilano per via Garibaldi, un gruppo di Arditi del popolo dalle case di via XX Settembre apre il fuoco sul corteo. Bartolomeo Bellicchi, di Noceto, rimane ferito gravemente ad una spalla, altri tre fascisti in modo più lieve. Quella sera stessa Parma torna all’agosto, riscoprendo le sue radici di lotta. Nel quartiere della Trinità e intorno a via Bixio si scavano trincee e si erigono piccole barricate. Un tram viene fermato, i tricolori strappati via. A fatica e, solo grazie alle autoblindo, si riporta l’ordine: dodici gli arresti, i reticolati sequestrati vengono portati in questura su un carretto.
Mercoledì
Il 1° novembre è il giorno del trionfo. A Parma, prima di sciogliere ufficialmente le file, un’ultima mastodontica manifestazione ratifica l’ingresso nel Ventennio. Ci si raduna in Giardino, davanti le automobili a passo d’uomo dietro le tre coorti in divisa perfetta. Mentre imbocco via d’Azeglio, seguendo mentalmente il corteo di cent’anni fa, immagino quella mattina «limpida e serena», gli abiti delle signorine Zinzani, le rappresentanti del fascismo femminile parmense, le biciclette delle staffette che collegano le parti del lungo cordone umano e la mitragliatrice che una delle squadre sfoggia con orgoglio. Le cinquemila camicie nere si congedano - dopo aver attraversato Oltretorrente, Cittadella e centro - in Piazza Verdi tra le ultime parole di Ponzi, il rombare dei camion e le grida di vittoria. La notte precedente, forse guidate da una fatale simmetria, le mani dei redattori avevano collocato in prima pagina, nella stessa posizione occupata dall’immagine di Giolitti, il ritratto fotografico di Benito Mussolini.