C'era una volta
Bagni pubblici, dove i poveri potevano lavarsi
Chi non aveva il gabinetto in casa andava nei locali di via Bixio e via Saffi
Una signora anziana strabenedice il semaforo che consente ai pedoni di attraversare lo Stradone all’altezza di Palazzo Giordani. «Non era possibile - dice - avventurarsi nel sottopassaggio (chiuso alcuni anni fa n.d.r.) che, oltre essere poco sicuro, si era trasformato in una maleodorante latrina». Cosi dicasi per alcune strade e borghi di qua e di là dal torrente trasformati in orinatoi a cielo aperto a causa della maleducazione e dell’inciviltà di tanta gente. Una volta, maleducati ed incivili, imperversavano ugualmente in città (forse un po' meno di oggi) ma in alcune strade o piazze cittadine, erano presenti i vespasiani che, almeno in parte, potevano servire a qualcosa. Fino agli anni sessanta, anche Parma, disponeva dei famosi vespasiani, alcuni di foggia elegante in muratura poi sostituiti da altri in lamiera disposti in vari luoghi della città.
Il vespasiano, comunque, vanta una storia antica che forse pochi conoscono. Esso prende il nome da Vespasiano, l’imperatore romano che intraprese grandi opere tra cui il Colosseo, il Tempio della Pace, il Campidoglio. Tuttavia, il suo illuminato regno, è passato alla storia per l’installazione nelle varie città dell’impero di «giare e pitali», chiamati appunto «vespasiani», utilizzabili a pagamento. Una vera innovazione a quel tempo. Il figlio di Vespasiano, Tito, reduce vittorioso dalla guerra in Giudea, rimase scandalizzato dalla singolare idea del padre e lo rimproverò duramente per avere realizzato una «simile e immonda cosa» e, per di più, facendo pagare i cittadini. È mai possibile - disse all’illustre padre - che l’impero avesse bisogno di fare affidamento su questi denari?». L’imperatore, riscossi i tributi, glieli mise sotto il naso domandando al pudibondo figlio se avessero cattivo odore. «Non olent» (non puzzano) ripose quest’ultimo con una frase rimasta famosa. «Eppure - ribattè il padre- provengono dall’urina» (Svetonio «Vita di Vespasiano»).
Nonostante i vespasiani pubblici, per decenza, anni fa, siano spariti dalle città, non è che oggi ci sia molta pulizia in giro. Comunque, i servizi igienici non mancano. Le case moderne ne prevedono due, tre e a volte anche quattro: uno per piano. Un tempo, quando le cose andavano male ed era già un lusso avere un tetto sopra la testa, l’ultima cosa alla quale si pensava era appunto il bagno non ritenuto un ambiente indispensabile per la casa. In città, parliamo logicamente dei fabbricati popolari (che erano la maggioranza), il servizio igienico era per lo più sistemato sulle scale ed era in comune. In campagna le cose erano un po’ diverse, in quanto, d’estate, la gente si arrangiava come poteva in mezzo ai campi, mentre in inverno il bagno, ma sarebbe meglio chiamarlo gabinetto (o meglio ancora «cesso»), per lo più, si trovava in fondo al portico, sul retro della casa, di fianco al pollaio. Era un bugigattolo stretto ed angusto illuminato da una finestrella che dava sui campi alla quale, il più delle volte, mancavano pure i vetri. Adele Grisendi nel suo delizioso libro «Bellezze in bicicletta» (elegia di una ragazzina di campagna) lo descrive così: «era un piccolo vano, poco più di un metro quadrato, coperto da un tetto di tegole, con muri interni male intonacati, una finestrella aperta poco sotto il tetto e una porta un po’ sgangherata che si chiudeva dall’interno con una piccola barra di legno da incastrare in un chiodo piantato al muro». Niente illuminazione, per carità, e quei disgraziati ai quali capitava un’urgenza notturna, dovevano munirsi di una «lùmma» a petrolio per fendere le tenebre e, una volta entrati nell’angusto locale, appenderla ad un apposito chiodo arrugginito che serviva solo a quella funzione. Ma è ancora Adele Grisendi che ci descrive la «sontuosa» toilette della corte «Giavareina» di Montecchio anni cinquanta o giù di lì. «Con un po' di fantasia si sarebbe potuto definire un gabinetto alla turca: in realtà, nel pavimento, c’era soltanto un buco collegato con le fogne delle stalle. Dal finestrino senza vetri e dalla porta, specialmente in basso, entrava l’aria. D’inverno fischiava un venticello gelido, che induceva a fare presto. Quando pioveva, si doveva portare l’ombrello, perché uscendo dal portico si restava a cielo aperto non esistendo una tettoia sotto la quale ripararsi».
Per lavarsi, il gabinetto non serviva. D’estate gli uomini, al mattino prima di andare nei campi e alla sera quando tornavano sudati, si lavavano sotto il «sambòt» che dispensava acqua fresca e purissima. Le donne, invece… attendevano alla sera e, quando tutti gli uomini erano a letto, si immergevano in un mastello d’acqua fredda posizionato accanto alla «porta morta». Qualche sguardo indiscreto del solito ritardatario che si era fermato un po’ di più all’osteria era subito rintuzzato dalle bagnanti le quali, immediatamente, si alzavano dal mastello avvolgendosi in un canovaccio di canapa ed indirizzando, nei confronti dell’intruso, frasi non certo dolci o carine.
D’inverno, quando le temperature rigide sconsigliavano l’uso dell’acqua fredda, i bambini venivano lavati dentro il solito mastello («sòj») nel quale era versata l’acqua bollente fatta scaldare sulla stufa dentro pentoloni di alluminio che servivano per spennare le galline o le anatre o per il brodo ed il lesso nei giorni di sagra. E, siccome anche la casa era fredda e la cucinona non si prestava per tale operazione, allora, si utilizzava la stalla che manteneva sempre una temperatura tiepida. Il mastello veniva posizionato al centro della corsia che divideva le due file di mucche, proprio sul limitare del «solcadello».
Quando, a giudizio della «rezdóra», l’acqua era abile per il bagno, i bambini si calavano dentro e venivano letteralmente «sgurati» con sapone da bucato. Dopo di che, opportunamente asciugati, venivano fatte indossare loro magliacce spesse e ruvide di lana e le solite mutande lunghe per difendersi dal freddo. Anche gli uomini si lavavano «in t’al sòj» all’interno delle stalle in quanto faceva più caldo. Inoltre avevano l’avvertenza di mettere i panni di ricambio (maglie, mutande e camicie) sul dorso delle bestie così si intiepidivano un po’. I nostri nonni, nelle gelide notti invernali, quando le necessità fisiologiche si facevano impellenti, non azzardando mettere il naso fuori di casa perché sarebbe rimasto congelato, utilizzavano i familiari vasi da notte in porcellana che tenevano riposti nel comodino.
Anni fa, e il dato ci viene da un censimento effettuato nel 1931, in Italia, 88 alloggi su 100 non disponevano del servizio igienico quindi la gente era costretta a servirsi dell’unica latrina posta sul ballatoio delle scale oppure in cortile. In campagna non c’erano tutte queste formalità anche perché, se «al cesso dardè cà» era occupato, i contadini, potevano disporre di tante siepi che coprivano necessità impellenti.
Poi fu la volta delle vasche da bagno economiche smontabili che servivano a più usi, appannaggio, però, delle famiglie benestanti. Ma, soprattutto, venne il momento dei bagni pubblici così, anche nella nostra città, finalmente, la povera gente poteva lavarsi in modo civile e dignitoso sotto una doccia o in una vasca da bagno.
Gli ultimi bagni pubblici che hanno funzionato a Parma furono quelli di via Bixio che chiusero i «rubinetti» alla fine anni settanta dopo quelli di via Saffi. Ma i bagni pubblici più eleganti erano in piazza Garibaldi ubicati nell’albergo diurno «Cobianchi» costruito alla fine degli anni Venti dall’ingegner Cattaneo. Una vera sciccheria, a quei tempi, con una sontuosa barberia, una raffinata sala commercio ed, ovviamente, bagni molto eleganti con biancheria raffinata e saponette profumate in perfetto stile dannunziano. «Dov’è il gabinetto?» chiese Goethe al locandiere di Torbole. «In cortile» gli fu risposto. «Ma dove precisamente in cortile?» ribattè il poeta. «Dovunque, dove vi pare» rispose l’altro. Ed anche questo la dice lunga sui servizi igienici d’un tempo che un vecchio contadino di un paesino pedemontano in direzione Langhirano «cantò» a suo modo con una massima che passerà alla storia: «’na volta la genta la cagäva fora e la magnäva in cà. Adesa la cäga in cà e la magna fora». Colorite perle di antica saggezza.