Presentato ieri «L'assassino del plenilunio»

Chi era il mostro della luna piena? Un insospettabile

Filippo Marazzini

«Non fu mai arrestato ma morì misteriosamente»

«La Parma degli anni Cinquanta, che cerca di lasciarsi alle spalle il secondo conflitto mondiale e intravede il boom economico, non è una città da cartolina, come spesso si sente raccontare. È al contrario un mondo di bar e trattorie malfamate, dove si aspettano le telefonate nelle tabaccherie e in alcune bettole si può ancora, per pochi centesimi, “dormire con la fune” ossia seduti appoggiati ad una corda. I bassifondi - oggi le aree più chic del centro - sono pieni di gente che vive in strada e la prostituzione è pratica diffusa, soprattutto sul Lungoparma, ma anche nella zona del Tribunale». È in questo luogo emerso dalle nebbie del passato che, ieri pomeriggio, all’Archivio di Stato, Gian Guido Zurli e Edoardo Fregoso, dialogando con Loredana Bracciotti, direttrice dell’Archivio, hanno accompagnato il pubblico attento, presentando «L’assassino del plenilunio» (edizioni Amazon), una documentatissima inchiesta su un killer seriale, ribattezzato dalla stampa “il mostro della luna piena”, che tra il 1954 il 1967 uccise quattro prostitute.

«Domenica, la prima vittima, era una escort di lusso che frequentava i colletti bianchi; Ermina, la seconda, una ragazza con problemi mentali che viveva in un anfratto del muro di cinta del poligono; seguirono Elda, originaria di Monchio e arrivata a Parma per lavorare come domestica e Bianca, che esercitava in un appartamento di Borgo Merulo. All’epoca non erano ancora state definite né le tecniche di profiling né il concetto di serial killer e le forze dell’ordine, pur indagando con zelo, non colsero immediatamente il nesso che legava i vari omicidi. Inoltre tra il terzo e il quarto delitto passarono dieci anni, una stranezza perché, di solito, un assassino seriale, dopo i primi omicidi, accelera le azioni invece che rallentarle. Per spiegare questo fatto abbiamo cercato negli archivi delle carceri e dei manicomi per capire se il cosiddetto “periodo freddo” fosse da imputare ad un internamento del killer in qualche struttura, ma non abbiamo trovato tracce in merito. Probabilmente l’omicida ebbe paura e trovò nella famiglia - o nella droga che allora cominciava a diffondersi - una valvola di sfogo. Fu costretto a tornare ad uccidere perché la quarta e ultima vittima sapeva troppo e avrebbe potuto metterlo in difficoltà».

Zurli e Fregoso, tramite attente ricerche d’archivio e la consultazione dei fascicoli dei delitti e dei rapporti di polizia, sono anche giunti a formulare un’ipotesi sul colpevole che non venne mai ufficialmente individuato. «Sulla stampa vennero fatte congetture fantasiose (si scrisse persino che le vittime erano state stordite con “sigarette drogate”) per affascinare i lettori, come nel caso di Wilma Montesi. Già all’epoca però, dopo aver interrogato la clientela delle prostitute e aver incrociato orari, alibi e testimonianze, polizia e carabinieri compresero perfettamente chi fosse il responsabile, ma intervenne un magistrato che, per motivi politici, ordinò di lasciar perdere, sottolineando che il sospettato era una brava persona. Così il colpevole, un medico, la fece franca. Nel libro abbiamo indicato solo le sue iniziali perché risultano in vita dei discendenti diretti e il suo nome all’epoca non venne mai fatto in pubblico, ma è presente negli incartamenti della polizia».

Insomma, tutto chiaro? No. Ai tempi le attenzioni di tutti si concentrarono su Enio Camisani Calzolari, marito della prima vittima e compagno della quarta: «Un personaggio tragicomico - puntualizzano gli autori - che a diciott’anni frequentava ancora la prima media e girava con le sue amate motociclette sulle colline del parmense indossando un basco nero con il simbolo della X Mas. Camisani Calzolari, condannato per sfruttamento della prostituzione, morirà misteriosamente nel rogo della sua casa di Roccaprebalza. Fu messo a tacere? Si può considerare la quinta vittima del Mostro di Parma?».