Do you speak pramzan? La presentazione con Stella del libro di Rinaldi
«I nostri migranti da clandestini a gente di successo»
La firma del Corriere: «Parma un concentrato di storie di un'emigrazione eroica e bellissima»
Partirono. In treno, in nave, a piedi. E presero il volo: per molti sarebbe solo stata questione di tempo. Gente dalla scorza dura: il sudore perso sulle pietre dei ripidi campi dalle madri (erano le donne a faticare di più in Appennino) e dai padri, loro lo investirono tra i grattacieli di New York, all'ombra del Big Ben o nella Ville Lumière. Le loro storie le ha raccolte e scritte in «Do you speak pramzan» Claudio Rinaldi, in una sorta di diario di bordo corale dell'emigrazione dalle nostre terra. A dare loro voce, con il direttore della Gazzetta di Parma nel palazzo del Governatore, Gian Antonio Stella, giornalista di lungo corso del Corriere della Sera e, da buon veneto, studioso di lungo corso del fenomeno delle migrazioni. «Storia da approfondire, anche se nota in parte, perché troppo spesso è raccontata solo a pezzi» esordisce Lorenzo Lavagetto, dopo aver ricordato uno dei grandi successi di Stella, il best e long seller «La Casta». «Come Comune - sottolinea il vicesindaco e assessore alla Cultura - siamo orgogliosi di ospitare questo incontro in un luogo di stimoli per approfondimenti».
«Ho subito accettato l'invito, non solo perché veniva dal direttore della Gazzetta - esclama Stella - ma anche perché Parma è terra di grandissima emigrazione, ricca di storie: un'emigrazione eroica e bellissima». Storie rievocate anche dalle cronache. «Quando di recente quel povero ragazzo è stato ucciso da un'orsa in Trentino, a sua volta abbattuta poi, andai a cercare l'ultima vittima di un orso in Italia». E la firma del Corriere scoprì la storia di un certo Dallara, che troppo s'era curato di bere e troppo poco di dar da mangiare al suo plantigrado chiuso nella stalla, dopo averci girato mezz'Europa facendo spettacoli nelle piazze. L'orso non gliela perdonò.«Claudio - prosegue Stella - è andato a ricollegare la storia più antica con quella più recente. Un capitolo ricchissimo, se si pensa che dal 1876 al 1976, quando sono stati più gli arrivi che le partenze, dal nostro Paese se ne sono andati in cerca di fortuna 26 milioni di connazionali: è il numero di abitanti dell'Italia al momento dell'Unità».
Un numero enorme, che contiene vite da leggere come inni alla speranza. A volte sfuggite solo per un caso alla malasorte. Magari ribellandosi al calendario. «Come nel caso di Aldo Beccarelli - ricorda Rinaldi -. Voleva partire per l'America con l'Andrea Doria, dopo la Madonna del Carmine, festa molto sentita a Borgotaro: il padre decise di salpare prima, su un altro transatlantico. E così fu evitato il naufragio». Per morto in mare venne invece dato uno dei due fratelli Frederick, gelatai di origine di Setterone fatti «acciuffare» da Churchill come gli altri immigrati italiani allo scoppio della Seconda guerra mondiale. «Uno di loro - racconta il direttore della Gazzetta - fu destinato alla prigionia in Canada. La famiglia lo credeva sull'Arandora Star, la nave trappola affondata da un sommergibile tedesco, e invece era salpato sulla Ettrick, due giorni dopo. Ho incontrato storie così belle e intense che a volte mi è bastato far parlare chi le ricordava».
Non ci sarebbe stato nemmeno Papa Francesco, se suo padre partito dal Piemonte per l'Argentina fosse salito a bordo della Principessa Mafalda, a sua volta naufragata. «Per questo - prosegue Stella - il Pontefice è stato così sensibile ai temi delle migrazioni, cercando di ricordare a tutti che il diritto di emigrare come di non emigrare sono speculari». Partire, poi, a volte significa restare ancora di più. Come Ernestina Maggi da Tarsogno. «Che ancora ricorda a memoria la canzone in dialetto cantata dal padre - spiega Rinaldi - che a sua volta l'aveva imparata dalla mamma». La lingua: un lavoro in più impararne una nuova. «Franck Capitelli, oggi un'istituzione dei valtaresi all'estero - prosegue il direttore - dovette mettersi in ginocchio per farsi riassumere, dopo aver perso il posto da cameriere al Friars club perché non sapeva l'americano. Ci sarebbe rimasto 55 anni, dopo due settimane di studio disperato».
A differenza di oggi, non erano preparati i nostri emigrati di allora. «Nel 1910 - racconta Stella - lo stesso giorno arrivarono una nave russa e una italiana a New York: la percentuale di analfabeti sulla prima era trenta volte inferiore a quella della seconda». In ogni caso, si imparava in fretta. «Come Mario Gabelli, originario di Solignano ma nato nel Bronx - ricorda Rinaldi -: a 5 anni era in strada a lustrare scarpe. Poi, da caddy sui campi di golf, ascoltando i discorsi dei ricchi imparò a investire in borsa. Ora è tra i 400 uomini più ricchi del mondo e anche un grande benefattore: ha finanziato borse di studio per oltre cento milioni di euro». Non avrà fatto la stessa fortuna, ma Stella chiede se in sala ci sia un discendente di tale Conti di Bardi. «L'uomo orchestra, a partire dal cappello con i campanelli, protagonista della più strepitosa foto della nostra emigrazione». Originale quasi come quella degli orsanti, ma più sicura.