PARMA

Sciamani, santi, samurai: la geografia dei cappelli a Mercanteinfiera

Un cappello non è mai solo un accessorio. È un codice culturale, un alfabeto di segni che raccontano un cappellino Lenci che porta con sé l’origine del Made in Italy. Ogni forma, materiale o tessuto esposto nella mostra “Da ogni capo del mondo: racconti, popoli, vicende attraverso il cappello” a Mercanteinfiera Autunno (Fiere di Parma 11 - 19 ottobre) evoca paesaggi e saperi: l’argento lavorato nei copricapi del popolo cinese Miao, la giubba garibaldina in panno rosso, le zanne di facocero del popolo etiope Mursi. Ogni oggetto delinea una geografia emozionale, trasformandosi in lente d’ingrandimento su civiltà che hanno usato il capo come manifesto di identità.

Tra le sezioni più curiose della mostra - realizzata in collaborazione con Martina Barison - quella dedicata agli sciamani. Cappelli che non proteggono soltanto, ma aprono varchi: portali tra il visibile e l’invisibile, strumenti di trance, guarigione, appartenenza. Come scriveva Mircea Eliade, lo sciamano è colui che “fa da ponte tra il cielo e la terra”. E i suoi copricapi – piume, nappe d’argento, corna, tamburi – sono architetture simboliche capaci di guidare questo passaggio.  A Parma, una selezione di rari copricapi provenienti da Mongolia, Tibet, Sud America e Africa restituirà la potenza universale di questo linguaggio millenario.

Il percorso si arricchisce di altri emblemi: l’elmo samurai del periodo Edo, simbolo di un tempo in cui il capo era custode della dignità e del rito; i copricapi dei Kayapó dell’Amazzonia, popolo che parla con i tatuaggi e le piume, trasformando il corpo stesso in linguaggio; o ancora il prototipo ottocentesco destinato a Carlo X, mai entrato in produzione, di altezza monumentale (80 cm) e usato a teatro in Francia. Accanto, pezzi africani di straordinaria forza estetica, talmente potenti da aver ispirato Picasso.

“Abbiamo voluto che ogni cappello raccontasse non solo un tempo o un luogo, ma anche un’emozione, una tensione, un’aspirazione”, spiega la curatrice Martina Barison. Non è folclore esotico: è un museo portatile delle culture, in cui le distanze si accorciano e le differenze si affermano attraverso la potenza visiva di un oggetto.

L’ambizione è guardare oltre l’etnografia, aprendo un orizzonte che abbraccia moda, cinema e design contemporaneo. Cappelli che diventano opere d’arte, capaci di entrare nelle grandi maison e nell’immaginario del nostro tempo.

La mostra è un invito a riscoprire la forza simbolica di un gesto antico: coprirsi il capo. Un gesto che parla senza parole, capace di raccontare chi siamo, da dove veniamo e, talvolta, dove stiamo andando. “Il cappello non passerà mai di moda, non morirà mai. È un testimone silenzioso, un segno di resistenza”, conclude Barison”.