C'era una volta

Autunno, Campora patria dei marroni

Lorenzo Sartorio

Il paese appenninico da sempre è rinomato per le sue castagne. Una comunità unita dalle tradizioni

I maestri pasticcieri
di Maria Luigia
se li procuravano
per preparare
i marron glacé

Ci sono paesi e territori della nostra provincia che, solo a pronunciarne l’etimo, vengono alla mente, tanto ne sono legati, un prodotto, un cibo, un frutto, una particolare tradizione che va indietro nei secoli. Ad esempio, quando si parla di patate non si può non pensare a Rusino, invece, quando si tratta di funghi, a questo punto, la freccetta del buon gusto si direziona su Borgotaro ed Albareto. Langhirano, ovviamente, è la cattedrale del prosciutto, Zibello la basilica del culatello, Felino la patria del salame.

Però, quando si parla di castagne, non si può non citare la capitale indiscussa del «marrone»: Campora di Neviano Arduini, autentica perla montana di casa nostra ai piedi del Monte Fuso. Già, i famosi «marroni» di Campora. Quelli dall’occhio cucito sono la tipica produzione del paese, quelli, tanto per capirci, con buccia rossastra e strie longitudinali più oscure e dalla polpa profumata e saporita. Di essi si onorarono le mense reali di Francia e Spagna e i maestri pasticceri ducali di Maria Luigia preparando deliziosi marron glacé.

Meritarono inoltre la medaglia d’oro alla mostra promossa dal ministero dell’Agricoltura nel centenario di Giuseppe Verdi nel 1913. In quell'occasione furono dichiarati «i migliori e i più saporiti». Ma Campora custodisce anche altri tesori oltre i secolari castagneti come, ad esempio, numerosi esempi di case-torri: Case Ruffaldi, Case Gelmini, Case Notari e Bertogalli. Don Dall’Olio nei suoi «Itinerari turistici della provincia di Parma» (Artegrafica Silva editore) cita un'altra peculiarità di Campora e, cioè, l’«acqua casalina», una sorgente d’acqua freschissima che scaturisce ai piedi del Monte Fuso «leggerissima e con proprietà stimolanti l’appetito, ci si arriva a piedi dalle Case Felisi in dieci minuti». Altro tesoro di famiglia camporese è sicuramente la «Corte Malora», che si raggiunge percorrendo una strada a lato della fontana centrale del paese, da secoli e continuativamente di proprietà della famiglia Malori, patriarcale famiglia contadina che si presume provenisse dalla Toscana con le sue greggi di pecore per la transumanza che, tradizionalmente, si praticava in padania. Pochi sanno che due degli ultimi facitori (ad uso domestico) del «vén äd pomm», vinello frizzante, color oro, gustoso, umile, senza pretese, fatto con le mele e che aveva il sapore di quella terra fiera e generosa che lo generava furono Emma e Lino Malori, anime gentili della «Corte Malora» entrambi scomparsi in venerabile età gli scorsi anni.

I Malori, nel periodo autunnale, che precedeva quello della raccolta dei famosi «marroni», raccoglievano le mele delle piante che circondavano la loro casa e le grattugiavano con appositi arcaici ammennicoli tanto da ricavarne, dopo una lunga e minuziosa lavorazione, il vino di mele le cui bottiglie venivano stappate, il 10 agosto, in occasione di San Lorenzo, sagra del paese.

Un vino quello «äd pomm» che potevano bere anche i bambini, ma che era snobbato dai «rezdor» i quali, ovviamente, preferivano il più gagliardo vino d’uva definendo, quello di mele, «vinèla». Lino e l’Emma vinificavano all’aperto e cioè nell’aia dove grattugiavano le loro mele quindi il vino veniva fatto fermentare nei tini in quelle cantine buie e fresche dove penzolava qualche salame ed erano messi a dimora, affinché stagionassero su assi di legno, i pecorini dei pastori toscani che transitavano da «Malora» durante la transumanza. All’interno della «Corte Malora» sorge il grazioso ed elegante oratorio dei Malori costruito nel 1747: un gioiello.

E, proprio nella «Corte Malora» di Campora, nacque un bel personaggio: don Lorenzo Malori. Un mito. Il sacerdote, uomo di profonda cultura e fervido ingegno, morì a Campora di Neviano Arduini, sua terra natia, il 16 marzo 1830 all’età di 105 anni, sei mesi e sette giorni. A questo venerando con la tonaca appartenente a una patriarcale famiglia contadina, i Malori, appunto, che dalla Toscana si insediarono a Campora nel 1500, la Gazzetta di Parma del 24 marzo 1830, dedicò un interessante e piacevole articolo titolato «Longevità», raro e divertente pezzo di cronaca locale riesumato dal geometra Pier Marco Malori, studioso del proprio casato e discendente di don Lorenzo.

Un articolo che mette in risalto le qualità, le caratteristiche, i vizi e le virtù di questa simpatica figura di religioso.

«Nel giorno 16 marzo corrente è mancato ai vivi nel Comunello di Campora, Comune di Neviano degli Arduini, il sacerdote don Lorenzo Malori, ivi nato e domiciliato nella grave età di 105 anni, 6 mesi e 17 giorni. Chi volesse imitarlo nel suo tenore di vita per veder di riuscire a campare altrettanto sappia che il Malori quanto alle sue morali qualità di uomo d’intelletto vivace; fu liberale, filantropo, cortese, fu buon amico, buon cittadino, pronto sempre al bene d’ogni persona e del paese. Da questo lato l’imitarlo sarà un guadagno sicuro; e sarà per lo meno un acquistarsi augurj sinceri ed universali di lunghissima vita. Quanto poi alle abitudini del corpo, poche ne ebbe di costanti, e non si tenne giammai ad un regolare sistema. Fu appassionato alla caccia, buon gustatore di liquori, dilettante di pipa. Coraggio! Il genere è di facile imitazione. L’illustrissimo sig. Commessario Distrettuale De Lama dalla cui gentilezza ci vennero somministrati questi particolari (e ci vennero eziandio dall’inclita Presidenza dell’Interno) trovandosi l’anno scorso a Campora per le incombenze del suo ministero, volle conoscere di persona il gran decano di que’ dintorni e recossi a visitarlo nell’angusta cameretta ch’egli da alcuni anni non abbandonava mai. Trovò il vecchione tuttavia in letto aspettando ch’altri venisse ad ajutarlo per alzarsi. Aveva fresca carnagione, buon colorito, l’occhio nella sua immobilità palesava la vista indebolita non però spenta; parlava borbottando per la mancanza totale dei denti e, come difficilmente intendevasi, così servivagli da interprete un nipotino di ottant’anni. Anche attualmente si beveva le sue tre once di acquavite ogni mattina, e di continuo pipava. Interrogato della goduta salute rispose non avere mai sofferto malattie, tranne una sola all’età di circa vent’anni, e fu reputato affetto da tisi. In quell’occasione ebbe a sottostare ad un salasso, primo e ultimo a lui: di poi bevette brodo di vipera, al quale attribuiva egli la sua guarigione. Ma era poi veramente per cosiffatta maniera ammalato? E se era, fu il salasso, o fu il brodo, o furono ambedue che lo guarirono? Non si sa; e sarebbe pur bene a sapersi per norma! E tuttavia non sapremo più, perché il medico della cura non vive, che se egli vivesse, le nostre meraviglie non sarebbero adesso rivolte all’età dei 105 anni, 9 mesi e 17 giorni».

Nota del cronista: il brodo di vipera allungherà anche la vita ma «còll äd manz, capón e galén’na» è decisamente meglio.