La lettera
Il papà Lorenzo Frattini «L'Adorni? Grazie per averci dato una scuola di quartiere e multietnica»
Agiugno di quest’anno il più piccolo dei nostri due figli è uscito dalla scuola elementare Adorni. Si è chiusa così un'esperienza iniziata 7 anni fa, quando il fratello maggiore ci era entrato per primo.
Oltre al filo di malinconia per la fine di un periodo della nostra vita, il sentimento principale che sentiamo al chiudersi di questo capitolo è quello di gratitudine. Sette anni fa avevamo scelto, non senza qualche dubbio, di mandare il nostro primo figlio alla scuola elementare di quartiere: quella più vicina certo, ma con percentuali di famiglie straniere facilmente sopra il 50%. Una scuola considerata da molti di frontiera, quando non addirittura un ghetto, da cui la maggior parte delle famiglie «italiane» cerca di tenersi lontano (tentazione che forse potrebbe avere anche qualche insegnante, ma che fortunatamente non succede). Dopo 7 anni e due figli che hanno frequentato la scuola, guardiamo alla decisione di allora come ad un'ottima scelta: siamo stati molto contenti dell’esperienza, ed anche un po’ orgogliosi, come tante altre famiglie che sono passate da lì. Ma non vorrei certo banalizzare la cosa o sottovalutare le preoccupazioni di altre famiglie. La scelta iniziale non è stata semplice, e il primo anno qualche dubbio c’è stato: quando ti accorgi alle prime riunioni che una quota enorme di genitori a malapena capisce l’italiano (e dunque le richieste degli insegnanti); o quando capisci che in classe qualche bambino è più «fisico» dei tuoi perché in casa sono davvero tanti fratelli (dimenticando che i bambini agitati c’erano ugualmente ai tempi delle mie elementari, in una scuola di paese, monocolore e 100% cattolica). Ad un certo punto ti viene il dubbio di fare scontare sulla pelle dei figli le conseguenze negative di una scelta ideale (ideologica?) dei genitori, e ti domandi «Ma se imparerà meno e avrà meno opportunità di altri coetanei, sarà poi colpa nostra?».
Poi i timori iniziali se ne sono andati molto in fretta, ed oggi appaiono piuttosto ridicoli. Il percorso formativo è stato di altissimo livello, tanto sul lato dell’apprendimento delle materie che della crescita umana. Tante volte noi genitori ci siamo stupiti della ricchezza dei dibattiti che venivano fatti in classe, della proprietà di linguaggio dei bambini, della grande empatia tra di loro, dei tanti laboratori in cui sono stati coinvolti. Abbiamo toccato concretamente quello che dovrebbe essere scontato, e cioè che bambini che vivono una scuola italiana sono italiani al 100% - bravi o meno bravi, come ce ne sono in ogni classe - indipendentemente dalla lingua parlata a casa. Ma allo stesso tempo i nostri bambini hanno conosciuto la diversità e il fascino delle tante culture che i compagni avevano alle spalle e cominciato a vedere il mondo - quello della loro città - così com’è oggi. Anche le famiglie sono state coinvolte in questa ricchezza, specialmente nelle feste che, almeno un paio di volte all’anno, vengono fatte nel cortile della scuola: qui il pezzo forte è sempre stato una lunga tavola imbandita di cibi portati da casa e provenienti da ogni parte del mondo. Queste feste sono organizzate da un gruppo di genitori (un comitato, che esisteva già prima del nostro ingresso nella scuola) che si sente parte del progetto scolastico ed orgogliosi di dare una mano; che vive la scuola non come un semplice servizio erogato alle famiglie, ma come una gioiosa responsabilità di tutti. La scuola di quartiere ha significato anche vicinanza a casa e ad essa dobbiamo anche il piacere di questi anni di aver potuto accompagnare i bambini a piedi, senza spostare l’auto, e l’opportunità di averli lasciati andare alla loro prima autonomia, in quinta, andando a scuola da soli. Lungo la strada si incontravano gli altri bambini, i negozianti, intessendo nuovi rapporti, rafforzando il senso di appartenenza al quartiere, e creando quel senso di comunità cittadina, che tante altre politiche comunali fanno fatica a realizzare. Oggi c’è la soddisfazione di aver inserito i bambini nel mondo reale e non in una bolla, magari meno problematica, ma certo più artificiosa; la consapevolezza che la nostra famiglia ha partecipato assieme agli insegnanti ad un progetto educativo collettivo, un percorso che è stato anche di integrazione ed emancipazione. Il progetto che in fin dei conti dovrebbe avere ogni scuola (e nel nostro caso ce l’ha, a pieno). Questa esperienza è stata così ricca e positiva probabilmente perché abbiamo avuto presidi intelligenti e sensibili, ma al tempo stesso concreti, capaci di costruire progetti e trovare risorse per attuarli. Che ci hanno messo del loro nel voler assicurare che l’Adorni non fosse la «seconda scelta» tra le due scuole dell’istituto comprensivo Parma Centro. Che hanno investito nella scuola con insegnanti di grande valore: maestri e maestre che hanno sempre trasmesso il senso di amare quello che facevano, che hanno arricchito continuamente i programmi ordinari con uscite e progetti, che in classe hanno intavolato dibattiti su ambiente, pace, cittadinanza. Senza questo investimento, questa volontà, questi insegnanti, forse le cose non sarebbero state così. Scrivevo all’inizio che il sentimento che proviamo oggi verso questo capitolo di vita che si è chiusa è quello di gratitudine. Gratitudine per le esperienze vissute ed il lavoro fatto dalla scuola. Ed è normale che questo sentimento ci si senta di esternarlo. Questa nota è dunque prima di tutto un ringraziamento: ringraziamento della nostra famiglia agli insegnanti che abbiamo avuto, ai presidi e tutto il personale non docente. Ma vuole essere anche una condivisione di un’esperienza con genitori che in futuro si troveranno a decidere dove mandare i propri figli. Ed anche un modo per ricordare quale istituzione preziosa sia la scuola, quale investimento sia per il futuro di tutti e quanto sia invece sottovalutata.