C'era una volta
Inverno, le mucche come caloriferi. E quando si andava a letto con il «prete»
Fino agli anni '50 era normale lavarsi nel tepore della stalla
Il terzo millennio, in fatto di riscaldamento nelle case, non scherza a meno che eventi geopolitici non taglino le forniture di gas e ci obblighino ancora, in piena era di satelliti ed informatica diffusa in tutti i settori, a scaldarci come i nostri nonni, ossia attivando il vecchio camino alimentandolo con la cara vecchia «sòca äd lèggna». Ma, al di là di questo, che non rappresenta certo un problema secondario dati i tempi che corrono e le guerre che divampano di qua e di là con relative implicazioni, proviamo a tracciare un amarcord sul modo in cui si scaldavano i nostri vecchi. In questo periodo le pubblicità televisive, abbandonati gli spot refrigeranti che ci hanno assillato tutta estate, ci hanno invaso di immagini da freddo proponendo il meglio per poterci riscaldare a dovere: termocoperte, scaldasalviette, riscaldamenti computerizzati a scomparsa nei pavimenti o nel soffitto.
Un tempo le cose andavano ben diversamente e il riscaldamento nelle case i nostri nonni lo utilizzavano quando potevano e come potevano in inverni non certo miti ed educati, ma con certi freddi che pungevano le ossa, facevano battere i denti e, di notte, disegnavano sui vetri delle finestre artistici fiori di ghiaccio.
Ebbene, in questi inverni di ieri dove dalle grondaie penzolavano candelotti di ghiaccio, dove per scaldarsi la gente di campagna, alla sera, riparava nelle stalle per fare quattro chiacchiere cercando di non consumare la legna per il camino, lo scaldare quei lettoni enormi in quelle stanzone dai soffitti con le travi in legno non era certo un’impresa facile. E allora, si ricorreva all’antico espediente del «prét da lét» che la «rezdóra» aveva ben cura di preparare nel tardo pomeriggio attivando lo scaldino con le braci del camino facendo bene attenzione a non combinare guai dando fuoco alle lenzuola e alle coperte.
Il «prét» era un marchingegno di legno a forma di mandorlone composto da quattro assi ricurve che avevano il compito di tenere sollevate le lenzuola. All’interno prevedeva una celletta con pareti in lamiera che ospitavano le braci dentro a uno scaldino. Per ottenere un calore uniforme e duraturo si utilizzano legni forti tipo olmo, quercia oppure si usavano le «torte» ottenute dalla compressione delle vinacce essiccate che «cuand bruzävon i spusävon d’ostarja». «Le braci - come precisa lo scrittore etnografo Sergio Gabbi - venivano sistemate tra due strati di cenere; su quello superiore la “rezdóra” tracciava con la paletta un piccolo segno di croce per scongiurare il pericolo di incendio».
Ma perché lo scaldaletto è stato battezzato in modo un po’ dissacrante «prete»? La storia è lunga e la leggenda si perde nella nebbia del tempo. Alcuni anziani sostengono, a riprova della cultura laica e anticlericale che serpeggiava un tempo tra la gente padana, che le donne, in assenza del marito, alla sera quasi sempre all’osteria, infilassero nel letto un aggeggio che le potesse scaldare. E allora, perché non battezzare quel marchingegno, panciuto come un rubizzo prevosto, col dissacrante epiteto di «prete»? Inoltre, per una «rezdóra», trovare... il «prete» a letto era pur sempre una forte emozione.
Siccome la stanza da letto e la cucina erano gli unici locali della casa che in inverno potevano fruire di un po’ di calore, i contadini, cercando di ottimizzare il tepore del «prete», unitamente a quello delle persone che dormivano, appendevano ai travi delle stanze da letto i salami che, appena «fat sù» (freschi) dovevano «sugär bén» per poi essere trasferiti in cantina a stagionare.
Quindi, si creava un mix davvero curioso che andava dall’acre odore di legna bruciata dello scaldino, a quello della naftalina degli armadi, a quello del budello fresco dei salami ancora olezzante di vino e aceto, a quello dei calzini e degli scarponi dei contadini. Ma, a quei tempi, a tutte queste cose, non ci si badava. L’importante era potersi scaldare, sconfiggere l’umidità di quei ruvidi lenzuolacci di canapone in attesa di alzarsi al mattino di buon’ora dovendo nuovamente combattere le offensive del «generale inverno».
Nelle lunghe e fredde sere invernali, dopo avere riassettato la cucina, la «rezdóra», stremata dalla fatica, dopo avere indossato la camiciona da notte e acceso la candela da comodino («bòzja»), si addormentava al tepore del «prete» mentre il marito, solitamente, rincasava più tardi dopo aver trascorso la serata all’osteria. Nella nostra città un provetto costruttore «äd prét da lét» e «navasól» (vasca di legno dove si pigiava l’uva) fu Giuseppe Fornaciari, fondatore dello storico negozio di frutta e verdura di via Repubblica all’ombra del campanile di San Sepolcro. Un altro artigiano che faceva i «preti» e li riparava fu il «maringón» Mordacci con laboratorio in viale delle Rimembranze, provetto falegname e gran brava persona. Ed infine Nando Azzali, indimenticato mastro falegname storico oltretorrentino con botteguccia in Guasti di Santa Cecilia il quale, oltre realizzare mobili di pregio e riparare «preti da letto», inventò un tanto strano quanto ingegnoso marchingegno tipicamente parmigiano. Si trattava di una grata, ovviamente in legno, per fare asciugare gli «anolén» appena fatti ed altri tipi di pasta fatta in casa «cme i maltajè e la pasta räza». Magro come un’acciuga, uomo forte e temprato, Nando, tutti i giorni, bardato di una lunga vestaglia, entrava nel suo laboratorio ovattato dalla polvere del tempo dove le ragnatele, imperlate di segatura, sembravano drappi dorati che ondeggiavano sul palcoscenico della vita.
E ora parliamo degli anni Trenta, Quaranta e anche Cinquanta. Nelle nostre campagne, ad esempio, il bagno settimanale o mensile lo si effettuava dentro un mastello all’interno della stalla perché, evidentemente, l’ambiente era più caldo grazie alla presenza delle bestie. Posto il recipiente nel bel mezzo della stalla facendo ben attenzione che la «doccia» non sgorgasse da sotto la coda delle bestie, iniziava il «rito» del «bagn' in-t -al sój» accompagnato da un pezzo «äd savón manganón»: quel saponaccio da bucato dallo spartano profumo di pulito la cui schiuma, se andava a contatto con gli occhi, li faceva bruciare come tizzoni ardenti.
Ma veniamo ora allo «scalda abiti» dei nostri nonni. Il «pajzàn», per scaldare i suoi panni (soprattutto maglia, mutandoni e camicia), aveva adottato un sistema intelligente. Quando si spogliava per entrare nel bigoncio, aveva l’accortezza di stendere per bene i suoi vestiti sul dorso di una mucca in modo che, una volta uscito dall’acqua ed asciugatosi con quei lenzuoloni ruvidi di lino, indossava la sua roba che, nel frattempo, era diventata tiepida poiché aveva avuto l’accortezza di appoggiarla sulle bestie più vecchie, più grosse e con le schiene più larghe (perché offrivano più posto per stenderla) ma, soprattutto, più tranquille perché non avrebbero fatto cadere i vestiti a terra tra il letame.
Comunque il, «pajzàn» sceglieva come «scalda-abiti» quelle bestie alloggiate negli stalli distanti dalle anguste finestrelle dalle quali fischiava la tramontana che trafiggeva quelle ragnatele che si trasformavano in eterei arabeschi ghiacciati attorno all’immagine «äd Sant’Antónni dal gozén».