SALUTE
Videogiochi smart. Un aiuto al cervello per sviluppano abilità e strategia
Basta con i videogiochi, pensa a studiare! Alzi la mano il genitore che non ha mai pronunciato questa frase. Certo, studiare bene la lezione e prepararsi ad una verifica o un'interrogazione è imprescindibile. Ma forse dovremmo riconsiderare - ferma restando la priorità dello studio - il valore dei videogiochi. Lo spiega Roberta Rosetti, dirigente medico della Neuropsichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza dell'Ausl di Parma. «Come molti studi hanno dimostrato già dai primi anni 2000, giocare ad alcuni videogiochi aiuta a sviluppare o incrementare determinate abilità mentali, modificando comportamenti e prestazioni. Questo è possibile perché quando parliamo di intelligenza non parliamo di un dato statico, una dotazione innata della persona, ma di un dato dinamico, prodotto anche dall’esperienza e dall’apprendimento - spiega la neuropsichiatra - Con il termine intelligenza intendiamo infatti la capacità della persona di modificare i propri pensieri e le proprie azioni per adattarsi alle realtà mutevoli alle quali è esposta».
La stessa organizzazione Mondiale della Sanità, ricorda la neuropsichiatra, ha inserito la consapevolezza di sé e delle proprie risorse, la capacità di risolvere i problemi, la capacità di prendere decisioni e la creatività, tra le 10 competenze di vita fondamentali.
«Un primo vantaggio dei videogiochi sul gioco tradizionale è che il contesto di gioco risulta particolarmente stabile e vincolante: il giocatore deve conoscerlo e rispettarlo, pena la non fattibilità del gioco o la perdita della partita. In un contesto educativo che spesso evita di sottoporre i bambini a frustrazioni, limiti o rinunce, i videogiochi offrono la possibilità di conoscersi meglio su un terreno obiettivo: come reagisco di fronte alle difficoltà, alle sconfitte, alle sfide; quanto so impegnarmi per raggiungere un obiettivo; quanto riesco a pianificare e controllare le mie azioni» dice Rosetti.
«Spesso notiamo nei genitori una difficoltà ad accompagnare i propri figli nell’accettazione di alcuni limiti personali, o nella posticipazione di alcuni bisogni. Da questo punto di vista il videogioco è spietato. Questa caratteristica, accompagnata dalla struttura quasi sempre a complessità crescente, permette al bambino di sperimentarsi progressivamente, conquistando competenze e livelli che il gioco esplicita e che risultano dunque facilmente riconoscibili» continua la specialista.
In un videogioco, fa notare la neuropsichiatra, per trovare una soluzione è necessario «avere compreso il problema, usare senso critico per individuare diverse possibili soluzioni, scegliere la più efficace tenendo presente tutti i dati del contesto, sia quelli stabili che quelli momentanei: ad esempio, nei giochi di ruolo, quanta potenza il giocatore ha in quel momento rispetto all’avversario».
La possibilità di ripetere innumerevoli volte la stessa situazione di gioco con contesti mutati, la progressività del gioco (da situazioni semplici a più complesse), la variabilità e la possibilità di scelta «sono enormemente più estesi rispetto a quelli disponibili con i giochi tradizionali».
Da quale età ci si può cimentare in un videogioco? «Il metodo di classificazione che definisce il target di età si chiama Pegi (Pan european game information). Questa classificazione, che riguarda i contenuti e non i livelli di difficoltà, parte dai 3 anni. È però nell’esperienza di tutti che bambini anche molto piccoli – due anni – sanno utilizzare telefoni e tablet per giocare in quasi totale autonomia. Non vi sono quindi limiti “strutturali”» risponde Rosetti.
L'importante è che il bambino sia lasciato da solo a giocare. «Uno dei compiti educativi dei genitori oggi è accompagnare i loro figli ad interfacciarsi con il mondo virtuale e con la rete. Occorre educare alla saggezza digitale. Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini da tempo sostiene che i genitori dovrebbero imparare a domandare ai figli “Come va oggi la vita virtuale?” con la stessa abitudine e naturalezza con cui chiedono “Come va a scuola?”, dando al mondo dietro agli schermi e a quello virtuale il medesimo peso».