Il dipinto ritrovato

Tra arte e rimpianto: così Bocchi ritrasse la figlia, giovane per sempre

Marzio Dall’Acqua

Una tela degli anni '50 dove il pittore ricordava Bianca

Amedeo Bocchi o dell’incanto del quotidiano, della quiete sospesa del giorno nel suo farsi e declinare con personaggi in riposo e sognanti in eterna silenziosa attesa, che si lasciano scorrere la vita intorno come avviene dell’acqua quando si nuota. Eppure misteriosamente sembrano sereni, immersi in una affettuosità di luce diffusa che accarezza il volto sempre composto ed armonico mentre le vesti e gli oggetti intorno si riempiono d’aria. Anche gli abiti, nella semplicità un po’ austera dell’ordinarietà dei giorni, non per questo sono meno eleganti e sottilmente raffinati. E già queste persone ritrattate è come se non fossero più tra noi e a «noi delle razza di chi rimane a terra» (Montale) non rimane altro che ammirarle, contemplarle con titubante sacralità e affettuoso stupore.
Bianca, l’unica figlia, è stata certamente una delle più frequenti protagoniste di queste opere del padre. Amedeo, in disegni, acquerelli e oli, ne ha documentato l’intera vicenda umana, in una specie di diario figurato, con una tenerezza ed un amore attento e incantato.
Nel 1906 l’artista aveva sposato Rita Boraschi, sua compagna di studi all’Istituto Toschi, e nel 1908 era nata Bianca. L'anno successivo la moglie era morta. Nel 1919 Amedeo Bocchi sposa, in seconde nozze, Niccolina Toppi, una giovane modella di Anticoli Corrado, che muore nel 1923. Anche Bianca morirà nel 1934, a ventisei anni. Dopo: anni di solitudine e di ricordi che talora diventano dipinti.
L’opera che presentiamo, apparsa sul locale mercato antiquario, inedita o certo poco nota, è un estremo ricordo della figlia, una rievocazione, eseguita nel biennio tra il 1950 e il 1952, come ha autenticato la nipote del pittore Emilia Bocchi.


Dopo decenni lei eternamente giovane si presenta nello stesso atteggiamento che aveva in un quadro noto come «Bianca in grigio» del 1930, dove la ragazza era in un interno, le mani conserte, seduta, con un braccio appoggiato su di un cuscino, in un’armonia di grigi e chiari: bella ma denunciava con il colorito pallido la condizione di convalescente se non di ammalata.
Anche in questa opera, che la ritrae solo a mezzo busto c’è quel languore che la rendeva così affascinate e lontana. Solo le labbra meno accentuate per un rossetto più pallido e l’azzurro cielo intenso degli occhi che guardano oltre le cose, lontano, restituiscono intatta un’aria di giovinezza fragile e un volto dolce, mentre intorno pennellate veloci e materiche costruiscono il busto, la camicia e lo sfondo. Il pennello ha accarezzato il volto e definito sinteticamente il resto, per cui il richiamo del viso viene accentuato e diventa centrale ed attrae proprio mentre lei non ci guarda, ma si perde nella lontananza.
I colori sono accessi, forti. Siamo in esterno e dietro si intravede una parete di verde fogliame ed un prato. Straordinaria la mano inerte dalle dita affusolate su di un cuscino dai molteplici colori, abbandonata in primo piano in una estrema e definitiva rinuncia, con le quattro dita allungate e chiuse: nella sua immobilità diventa un forte segnale di separazione e distacco e visivamente allontana ancor più il busto proiettandolo verso il fondo, allontanando un possibile contatto. Ancor più per la prospettiva discreta, appena allusa, che non richiede intensi chiaroscuri: tipica di Bocchi.
Un gesto minimo che diventa però significativo e allusivo ad una condizione esistenziale e emotiva per il padre risolta con grande poesia, nella evocazione, nel rimpianto e nella mimesi consolatoria dell’arte.