IL PERSONAGGIO
Stefano Calzi: «Dakar, non vedo l'ora di ripartire»
Il bercetese è arrivato 2° nella categoria H4-Classic
L’unico attacco possibile è questo: «C’era una volta la Dakar». Si, perché solo l’inizio canonico di ogni favola può raccontare quella che non è una semplice corsa ma un mito, un sogno. Una chimera. E allora tanto vale lasciar perdere la logica e fare rombare le emozioni: che questa è una gara tra macchine. Ma è l’elemento umano che fa la differenza.
A dirlo per primo fu Thierry Sabine, il sognatore che il rally lo ha inventato, ma lo potrebbe spiegare anche Stefano Calzi che questa cavalcata tra la sabbia e la fantasia l’ha vissuta quindici volte. E’ rientrato da poco e nella sua categoria, la H4 della Classic, col navigatore Umberto Fiori, nell’edizione 2024 è arrivato secondo. Se questa fosse solo una gara ci si potrebbe fermare qui. Ma questa è la Dakar: e da qui si parte. «Ho corso con una Mitsubishi Pajero MPR che ha fatto storia della corsa. Questa è la vettura che Jean-Pierre Fontenay e Bruno Musmarra portarono al terzo posto nel 1996», spiega Calzi che sa fare altre magie oltre a quella di guidare.
Di mestiere, a Berceto, quindi ben lontano dalle dune, con la sua Motortecnica Racing Team regala una nuova giovinezza a bolidi più o meno del passato. In mano a lui tornano giovani e potenti come razzi. «Per chi non è appassionato occorre spiegare. C’è la Dakar vera e propria e la Classic destinata a veicoli degli anni ‘80 e ‘90 che partecipano ad una sfida di regolarità». Detto così può sembrare una prova meno dura: fidatevi, non lo è. «Il gruppo del mio team era formato da 16 persone tra piloti e meccanici e abbiamo portato un camion e diverse auto. Tra queste anche Nissan Patrol che ha partecipato alla Dakar non Classic». Ovvero una mattanza per motori e sospensioni di prototipi che volano tra dune e pietraie a velocità folli con l’unico aiuto di un roadbook digitale, tanta esperienza e parecchio coraggio.
«Ora quelli in gara sono esemplari unici: un tempo si andava dal concessionario, si acquistava l’auto e la si elaborava personalmente. Adesso è tutto cambiato», spiega Calzi che delle elaborazioni è un maestro: «La macchina che ho preparato dell’originale mantiene la carrozzeria e il blocco motore. Tutto il resto è stato rifatto e quello che non serviva è stato tolto». Ma anche questo è logico quando si parla di una gara come la Dakar che ha mille anime e tante storie: prima si partiva da Parigi e si arrivava in Senegal, poi ci si spostò in Sudamerica, dal 2020 si gareggia in Arabia Saudita. Nel frattempo gli spartani ricoveri dei primi tempi sono diventati accoglienti campi tendati, i piloti riposano nei motorhome come nel circuito della Formula 1, la sicurezza è affidata a sistemi satellitari e per evitare l’ennesimo incidente fatale – che di Dakar, purtroppo si muore – i mezzi sono dotati di gabbie protettive e altre mille diavolerie. «Ma la gara resta quella, dal nord al sud del paese, tra paesaggi incredibili in mezzo al nulla dove si devono tenere medie molto elevate, dagli 80 ai 100 all’ora». Fermiamoci un attimo: i 100 di media sono quasi impossibili da tenere sulla Cisa. Pensate cosa possa essere farlo su una pista di sabbia che sprofonda e con dune alte come montagne che fanno lo sgambetto.
«Questo è il grande fascino di questa sfida», continua Calzi che sul suo profilo si definisce «dakariano» e poi, sorridendo, spiega: «A metà corsa ti trovi a borbottare: “Ma chi me l’ha mai fatto fare? Basta, questa è l’ultima”. Poi, con l’arrivo in vista, prima ancora di tagliare il traguardo, pensi che dovrai aspettare un anno. Ma non vedi l’ora di ripartire». Già, per tornare a rimettere in moto quei motori da 350 cavalli da scatenare su piste quasi invisibili e sempre più estreme nell’infinito nulla del Rubʿ al-Khālī: in arabo significa il «Il quarto vuoto» perché dopo cielo, terra e mare qui c’è solo sabbia. «Il secondo piazzamento di quest’anno è positivo ma per molti giorni siamo stati in testa e se non fosse stato per un problema tecnico avremmo potuto ottenere di più». Ecco perché, adesso, è già ora di rimettersi al lavoro e preparare le nuove macchine. Il deserto aspetta e la voglia di correre monta. E come ha detto uno che di motori ne capiva come Jacky Ickx «questa corsa è una sfida incredibile per chi la vive e qualcosa di irraggiungibile per chi resta a casa. È un’esperienza che cambia la vita». Insomma: «c’era una volta la Dakar». Chiedetelo a Stefano Calzi: vi dirà per fortuna che c’è ancora.
Luca Pelagatti