×
×
☰ MENU

Ezio Bosso racconta il «suo» Verdi

Ezio Bosso racconta il «suo» Verdi

02 Aprile 2019, 07:39

Vittorio Testa

Tutto esaurito, l’agognato ‘sold out’, come non accadeva da 27 anni nella sala ‘Verdi’ del conservatorio milanese, sovraffollata soprattutto di giovani, per il concerto domenicale beethoveniano di Ezio Bosso con la sua Stradivari Festival Chamber Orchestra, organizzato dalla Società del Quartetto. Un incantatore alla guida di un gruppo di amici disposti a seguirlo con affettuoso entusiasmo in una sorta di rapimento musicale governato dal gesto elegante- la bacchetta perentoria, il braccio sinistro a disegnare nell’aria dolcezze e dolori, tinte e colori- di questo direttore ascetico che dirige cercando gli occhi dei suoi strumentisti, sempre gratificati da un sorriso che a volte splende nella felicità del suonare insieme, a volte è sofferente per un errore o dolcemente rimproverante per il mancato raggiungimento dell’impossibile perfezione.

Tutto è opinabile, ma un dato di fatto certo è che questa orchestra ha una personalità precisa, unica. Bosso e i suoi adoranti complici trovano naturale e necessario provare per otto ore il sabato e altre due la domenica per presentare al pubblico il miglior possibile Beethoven di Eleonore III, del Triplo concerto (Enrico Dindo al violoncello, Anna Tifu violino, Antonio Chen Guang al pianoforte) e della Quinta sinfonia. Lui, il maestro, è implacabile: otto volte la ripetizione degli archi che si uniscono in un crescendo che è un volo nella purezza del cielo; sezione per sezione torturanti aggiustamenti; consigli imperiosi su come imbracciare il violino. Minacce: «Silvio finirà che ti tolgo il leggio: guarda me, guarda la mia mano, son qui che sembro la statua della Libertà» dice Bosso al violino di spalla, uno dei veterani. In orchestra suonano una ventina di professori che hanno lavorato con Bosso, allora contrabbassista ragazzino di 16 anni, ai quali si sono aggiunte forze fresche uscite a pieni voti dai conservatori. Lo statuto della Stradivari Chamber Orchestra prevede la turnazione nello stare davanti, tutti devono avere la possibilità di conoscere la responsabilità e l’onore della prima fila. Otto ore il sabato, più due appena prima del concerto, un carico di lavoro, di scavo, di affinamento del suono.

«Non basta suonare bene» dice il tiranno Ezio: «Occorre amare la partitura, cercare la nobiltà del suono, ascoltare il vicino, guardarsi negli occhi, aiutarsi l’un l’altro». Bosso è instancabile, percorso da un’energia quasi esplosiva, stupefacente inesauribile risorsa nel corpo esile e ferito dalla malattia.

«Ma quasi sempre - dice celiando - sono loro a prenderci gusto e forse per gradita vendetta mi sfidano a continuare e mi stroncano». Poi, dopo l’accumulo di prove sezione per sezione, gli insieme, ecco il risultato di tanta fatica. Bosso sprona, grida «bravi, bravissimi», manda baci da lassù, dal settimo cielo: «Che meraviglia che siete: grazie, grazie di farmi vivere!». Una delle prove è aperta, il pubblico assiste rapito e silenzioso, scoppiano applausi fragorosi alla fine dei vari movimenti. «No, no» scherza ilare maestro Ezio: «L’abbiamo fatto malissimo. Adesso ve lo rifacciamo come si deve». Gli orchestrali amici, vittime volonterose e felici, sorridono grate all’ineffabile despota: un occhio al leggio, due al maestro, l’espressione gioiosa di chi è rapito dal proprio suono. Ecco: la gioia, la gioia di suonare insieme, la gioia di comunicarla al pubblico. «La gioia di riuscire ad essere il tramite tra il compositore e il pubblico: questo è il nostro compito, solo questo», dice Ezio Bosso, negli occhi del quale passa un’ombra triste: «Facciamo pienoni da rock star, ma la realtà è che io pago per far lavorare la mia orchestra. Anche questo concerto, record di spettatori, per me è finanziariamente in perdita». Com’è possibile? «Non so, è così. Togliendomi la possibilità di fare musica mi uccidono». Ezio Bosso è affranto. Ma è solo un attimo: «Ma cosa sto facendo? Mi perdoni! Alla fine la musica vincerà ogni cattiveria, ogni ostacolo. Se fossi tenore le canterei un interminabile ‘Vincerò’”».

Ne siamo sicuri, irresistibile maestro Bosso.

L'AMORE PER IL GENIO DI BUSSETO

Busseto, Roncole e adesso Milano: per Ezio Bosso un concerto tutto Beethoven al Conservatorio «Giuseppe Verdi», nella sala grande «Verdi». E l’appuntamento per un caffè è al Grand Hotel et de Milan, dove alloggiava il Genio bussetano. Guarda caso, siamo seduti accanto a un ritratto del Maestro che «pianse ed amò per tutti».

Qui a Milano Verdi divenne l’artista universale che è stato. Ma la prima esperienza fu terribile: bocciato e non ammesso in questo Conservatorio...
«Sì, la prima grande sofferenza dell’amatissimo ‘’zio Peppino” e qui, al termine della vita la dimostrazione dell’affetto, dell’amore, della riconoscenza: il silenzio attonito, religioso, a proteggerlo; la famosa paglia stesa sulla via per evitare il rumore delle carrozze. Sì quando sono a Milano alloggio sempre qui, nell’ultima dimora terrena del grande Peppino. Ed è sempre un’emozione».

Dunque per lei Beethoven è la figura del padre musicale e Verdi?
«Con Beethoven, Verdi è la figura da me più amata. Per lui vale quel che diceva Savinio dell’immenso tedesco: ’'Si è stabilito nella nostra mente saldo e immutabile. Amico fedele, e per sempre, non ci abbandona mai”.

Quali sono le caratteristiche che accomunano questi due artisti?
«La grandezza d’animo, l’onestà, il coraggio, la purezza. E la capacità di offrire la loro arte con pudore, di trovare anche nel dolore la forza sublime, consolatoria messa a disposizione dell’umanità. Beethoven diceva: '’Siamo nati per avere gioie e dolori: i migliori di noi raggiungono la gioia attraverso la sofferenza'’. Uno ha vissuto una vita segnata dalla disperazione, l’altro dietro un’apparente esistenza serena quasi imperturbabile, ha conosciuto lo sconforto. Entrambi hanno conosciuto la cattiveria del mondo. Entrambi hanno saputo dominare il destino. Entrambi sono stati rivoluzionari, nella vita e nell’arte».

Quali sono i momenti più alti, da questo punto di vista?
«Tutta, tutta l’esistenza. Ma se vogliamo esemplificare, prendiamo il Fidelio: la prima opera femminista della storia, una donna che si traveste da uomo per salvare l’amato. Verdi ha avuto il coraggio di dirci che l’amore vero non conosce costrizioni sociali, la convivenza scandalosa con la Strepponi; Violetta che vince il perbenismo ipocrita morendo; Stiffelio perdona la moglie adultera. E nell’ultimo atto della loro vita ci lasciano con levità, ironia, sorrisi di complicità: Beethoven con la sonata 111, Verdi con il Falstaff del “tutto nel mondo è burla''».

Lei, maestro, esegue spesso Beethoven ma...
«Ma Verdi? Sogno di allestire un Rigoletto, una Traviata. Ora il fisico mi sostiene, riuscirei, se mi dessero un’occasione…Ma per ora mi accontenterei di un concerto imperniato sulle sinfonie delle opere verdiane. Nabucco, la Forza, i Vespri…E quella, stupenda, dell’Ernani che, chissà perché nessuno fa mai. E poi ci sarebbe un altro sogno. Ci sono andato vicino tempo fa, dovevo dirigerla ad Aquileia, la cui nascita Verdi racconta nell’Attila, ma poi… tutto svanì»

Attila, dunque?
«No: la Messa da Requiem, questo prodigioso affresco umanistico che come diceva Thomas Mann ''è grandissima musica che unisce il culto della morte e la pienezza della vita sensuale''. Quel Thomas Mann che definì Verdi ‘’una sorgente primigenia”, stimato da lui a tal punto da gratificarlo con un complimento mai offerto a un musicista italiano: ”Sembra un tedesco”. E Kastorp, nella Montagna incantata, ritiene estatico il duetto finale dell’Aida, la sublimazione della morte nell’approdare a una vita migliore».

Adesso, al commiato, Peppino sembra guardare piacevolmente stupito Ezio Bosso, questo maestro di verdianità, che, in guanti rossi autospingenti il veicolo a due ruote, gli passa davanti sorridendo. V.T.

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI