Lorenzo Sartorio
Oramai avevano un bella età, avevano trascorso tanti inverni avvolti da neve, nebbia, ghiaccio e «galabruza» e i loro rami avevano fatto piovere a terra, le grosse castagne avvolte nei loro ispidi ricci che un tempo servivano da autarchico riscaldamento per chi non aveva i soldi per comprare legna e carbone. Una trentina di antichi ippocastani dello Stradone, aggrediti da un fungo killer come sostengono gli esperti, sono stati abbattuti perché stavano diventando un pericolo ed i loro rami, non certo gagliardi come un tempo, potevano rovinare al suolo al primo alito di vento. Ma immaginiamo, solo per un momento, come se scorressimo un film in bianco e nero, cosa avranno visto negli anni questi decani arborei dello Stradone nel corso della loro lunga vita. Dalle sfilate dei militari a cavallo che, nel corso di eleganti parate, facevano perdere la testa a quelle signorine imbellettate di buona famiglia che civettavano sulle tribune ai lati della strada, ai multicolori arrivi di tappe del Giro d’Italia con volate mozzafiato, ai primi roboanti bolidi della «Mille Miglia» che saettavano sullo Stradone tra ali osannanti di folla, alle rumorose e appassionanti gare motociclistiche della «Milano –Taranto», a quel tram che, sotto i suoi fronzuti rami, caracollando, si inerpicava sulle prime colline, a quei bisonti della strada con rimorchi carichi di robe varie che in inverno fendevano la nebbia con il loro musone sul quale erano incastonati robusti fanali e in estate sostavano per consentire agli autisti di gustarsi una fetta di cocomero nella anguriaie di frasche.
In tempo di guerra la loro chioma sarà stata lambita dai voli di Pippo, dall’eco drammatico delle sue bombe e dall’urlo lancinante delle sirene che avvisavano i parmigiani di mettersi al riparo nei vicini rifugi. Sarà stata scossa delle roboanti colonne dei carri tedeschi e dal familiare rumore delle jeeps americane all’alba del 25 aprile 1945. E poi l’appendice romantica con i morosi che nelle serate estive, complice un buio pesto punteggiato di lucciole non certamente offeso delle fioche lampade stradali, si sussurravano parole d’amore. Ed ancora : andirivieni di studenti che transitavano sotto i loro rami, le lunghe fila di seminaristi con tanto di abito talare e capello largo che, al pomeriggio, uscivano per la passeggiata ricreativa per poi fare ritorno nel seminario di viale Solferino a studiare i sacri testi. Ultimamente i vecchi ippocastani erano diventati ciechi in quanto non riconoscevano più quella città che li aveva visti crescere e svilupparsi. Non era più la solita, era divenuta troppo grande e rumorosa per loro. Erano diventati sordi in quanto non avvertivano più l’argentino suono della campanella della «Ceza dal Bambèn» di Barriera Farini. I loro compagni di sempre, ossia, merli, passeri, fringuelli e rondini non lambivano più la loro chioma in quanto cacciati dallo smog e da un traffico che non lascia più spazio alla natura. Parma non era più la loro città, non avvertivano più, in estate, gli echi di «Bandiera Rossa» provenienti dalla vicina Cittadella quando, fino agli anni settanta, imperversava il Festival dell’Unità, si trovavano a disagio in quella fetta di strada illuminata a giorno da potenti lampioni che disturbavano i loro sonni. Il loro udito era costantemente ferito da rumori di ogni tipo ed anche le stagioni non li rispettavano più come un tempo dove le primavere li avvolgevano di tepore e verde tenue e gli inverni li ammantavano di neve.
Non hanno retto al progresso, quindi, robusti cerusici con seghe elettriche, cavi, tiranti, affilate accette li hanno abbattuti. Al loro posto saranno piantate esili pianticelle che timidamente si affacceranno sul mondo dello Stradone cercando di sostituire i propri avi che, dentro i loro tronchi, si sono portati via un pezzo di storia di questa città e quella magia che sprigionavano le loro foglie in estate, le loro castagne in autunno ed loro rami in inverno che, ammantati di neve, assomigliavano tanto a quei pazienti ricami delle suore di clausura della «Ceza dal Bambèn».
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