Filiberto Molossi
Un amico agricoltore, che non era tipo da tirarsi indietro, un giorno mi ha detto: «Se c'è da ammazzare il maiale, io l'ammazzo. Ma se appena posso, lo faccio fare a qualcun altro». Perché se non lo sapete, il maiale muore male: e una volta ancora peggio. E ci vuole fegato: anche solo per guardarlo morire. Nel bambino che si nasconde nel fosso a spiare il maiale cadere - e agonizzare per il colpo, imprevedibilmente maldestro, del norcino -, si cela già lo sguardo del grande regista, lo stupore, che sa essere violento e feroce, della scoperta della macchina da presa, l'epifania di una dichiarazione poetica, davanti a un punto di vista che da soggettivo diventa oggettivo. E' un segno, un presagio: qualcosa che, poi, fa parte di te. Ma, probabilmente, allora non lo sapeva il bambino nel fosso né il ragazzino dietro la cinepresa. Il giovane Kubrick, in un servizio allo zoo, scattò le sue foto dal punto di vista degli animali, delle scimmie; mentre il bimbo Spielberg filmò lo scontro dei suoi trenini (che i genitori erano stanchi di continuare a ricomprargli) in modo da potere rivederlo per sempre: il sedicenne Bernardo Bertolucci, invece, aspettò i norcini e la loro promessa di morte. C'è un momento preciso in cui nasce un autore, ed è un momento che si porta dietro per tutta la vita: lo straordinario regista de «Il conformista», il premio Oscar de «L'ultimo imperatore», ma anche il coraggioso e complice narratore della generazione «rifiutata» di «Io e te», sono già tutti lì, nell'invincibile voglia di cinema di un adolescente che guarda il maiale morire. Crescono nella campagna di Parma, i germi del genio: nello stato di grazia di un padre poeta che forse ascolta mentre in piedi al telefono, alto come un fuso, detta a braccio le sue folgoranti recensioni alla «Gazzetta di Parma». A volte sono gli stessi film che hanno visto insieme all'Orfeo di via Oberdan (dove adesso c'è una mensa...) oppure al cineclub che Attilio ha fondato con Pietrino Bianchi. I suoi giochi da bimbo sono quelli: rifare con gli amici i film che ha appeno visto. Dà compiti, impone ruoli: è già un regista, anche se con le braghe corte. E Baccanelli, in quella Parma del dopoguerra, è il West. Almeno fino a quando gli amichetti non scoprivano il frutteto del nonno e si arrampicavano sugli alberi abbandonando il «set».
Diventa grande nella poesia il piccolo Bertolucci e ne comprende, con emozione, i più intimi segreti: guarda con i suoi occhi la celebre rosa bianca, immortalata dai versi del padre, in fondo al giardino. Scrive anche, e pubblica: ma le parole non gli bastano; per esprimere il suo mondo interiore ha bisogno delle immagini. Il talento è già impresso, fotogramma dopo fotogramma, nei primi cortometraggi in 16 millimetri: oltre a «La morte del maiale» anche «La teleferica». Li gira perché ne sente il bisogno, forse «afflitto» da quella stessa «malattia necessaria» del padre, che al cinema andava col termometro per misurare la febbre dell'emozione. Ma anche, un po', per imitare l'inimitabile Antonio Marchi, signore elegante quanto almeno il bianco e nero dei suoi ora rari documentari. L'occasione però - quella grande - gliela offre un amico di suo padre, un signore che un giorno, anni prima, aveva lasciato fuori dalla porta perché gli sembrava vestito come un ladro o, magari, come il cowboy in nero del «Cavaliere della valle solitaria»: si chiama Pier Paolo Pasolini.
Lasciata Parma, i Bertolucci si trasferiscono a Roma, al quinto piano di via Carini 45: Pasolini viene ad abitare al primo. Un giorno incontra sul portone il giovane Bernardo e gli annuncia che girerà un film, «Accattone»: «Dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto regista». Bernardo è lusingato, ma anche perplesso: prova a obiettare che non è sicuro di sapere come si faccia, l'aiuto. Ma Pasolini taglia corto: «Nemmeno io ho mai fatto un film». Nelle borgate romane, a Torpignattara, non ci sono alberi da frutto né bimbi che scappano dal set: ora si fa sul serio e per tutti è una prima volta. Una scoperta continua, la nascita - e l'invenzione - del cinema, sia per Pasolini che per lui: la prima carrellata, la prima soggettiva. E poi il primo film, quello di Bernardo stavolta, da un soggetto che avrebbe dovuto dirigere Pasolini: «La commare secca».
Dalle suggestioni pasoliniane Bertolucci si libererà con il film che lo riporta - esattamente 50 anni fa - a Parma, «Prima della rivoluzione». Un cult che ancora impressiona per la modernità del linguaggio, la capacità di invenzione, la spavalda sfrontatezza: Bertolucci ha appena 22 anni e gira il film che cambia tutto. Si riappropria di Parma sottraendola al padre e insieme stacca anche il cordone ombelicale che lo lega a Pasolini. E' il tempo in cui si farebbe uccidere («e ucciderei») per un'inquadratura di Godard. Un'ammirazione che ancora dura, ma che non lo ha mai limitato nella scelta e nell'espressione artistica. Lo dimostrano i grandi film ambigui e personali dei primi anni '70 - «Il conformista» e «Strategia del ragno» -, così come gli altri capolavori di quegli anni, da «Ultimo tango a Parigi» - le cui anteprime ricordano alcune riunioni carbonare, con le sale che si riempiono del fumo di sigarette non ancora proibite - all'epopea della terra e dello scontro di classe del fluviale, magico, «Novecento». «Ultimo tango» che dà scandalo viene pure condannato al rogo: ma non saranno i giudici a fermare con una sentenza assurda venata di rancore piccolo borghese il successo, clamoroso, della pellicola.
Sono gli anni che creano e scolpiscono nella celluloide il mito Bertolucci. E confermano l'unicità del suo segno: si può fare (male, di solito) un film alla Scorsese, o magari, al limite, anche alla Lubitsch. Ma non si può fare un film «alla Bertolucci». Anche la sua potenza che si fa, di volta in volta, feroce, struggente o lirica (chissà se è questo il segreto del melodramma...) non ammette repliche. Il Bertolucci parmigiano finisce, cinematograficamente, nell'81 con «La tragedia di un uomo ridicolo»: la piccola capitale gli sta stretta, l'orizzonte adesso è il mondo.
E' il momento delle grandi produzioni internazionali: di un cinema (e di una versatilità linguistica) in cui Bertolucci è viaggiatore e non turista all'interno dei suoi film, disposto a perdersi nella sua stessa idea di cinema, a costo di non fare più ritorno. Sono i giorni dell'apoteosi dell'Oscar, della grandiosa scoperta della Cina: di un film che sa essere magnifico nelle sequenze dell'imperatore bambino così come anche in una scena di sesso nascosta interamente da un lenzuolo. Bertolucci torna in Italia con «Io ballo da sola», inseguendo la «stealing beauty» di Liv Tyler, poi, dopo avere dato voce ai suoi bellissimi e incoscienti dreamers, il lungo silenzio, la malattia. E nove anni dopo la voglia di ricominciare: di rinchiudersi nella cantina di «Io e te» per ritornare alla luce. Una «rinascita» che oggi, nel suo riabbracciare Parma, riporta la memoria a 40 anni fa, a quel giorno in cui incontrò Renoir, incrociando il suo sorriso: lo stesso appeso a un busto realizzato dal padre Auguste e che raffigurava il regista francese a 5 anni. E' un incontro che Bertolucci rievoca spesso: chissà se quel sorriso non assomigliasse a quello enigmatico eppure straordinariamente rassicurante stampato sul viso del padre Attilio. Il poeta lo portò con se anche quel giorno di 30 anni fa, quando toccò a lui ricevere la laurea honoris causa: siamo certi che oggi spunterà, identico, sul volto di Bernardo.
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