Serena Faganello
Ancora ancora ancora» e poi «Ancora ancora ancora». Le intramontabili parole dell’omonima canzone - scritta, nel 1978, da Cristiano Malgioglio per l’inconfondibile voce da brivido felino della Tigre di Cremona - potrebbero fungere da leitmotiv dell’intero corpus degli indimenticabili filmati in b/n dei prestigiosi «Caroselli Barilla» (1965-70), con protagonista proprio l’eclettica Mina, poiché la curiosità non conosce mai tregua di beltà. In particolare, non solo quelli splendidi diretti da Antonello Falqui (il deus ex machina de «Il Musichiere», «Canzonissima», «Studio Uno», «Milleluci»), Enrico Sannia (il futuro assistente di Michelangelo Antonioni in «Professione reporter», 1975), Enzo Trapani (l’aiuto di Roberto Rossellini, poi alle redini di «Fantastico» dal ‘79 all’83), Valerio Zurlini (il regista de «La ragazza con la valigia», 1961, e «Cronaca familiare», 1962); ma, soprattutto, quelli stupefacenti, magistralmente plasmati da Piero Gherardi (costumista ipnotico e scenografo ammaliante, due volte premio Oscar per «La dolce vita», 1960 e «8½», 1963), incaricato da un lungimirante e intraprendente Pietro Barilla, intriso della modernità del marketing americano, d’invitare al consumo della pasta italiana in un’onirica cornice di un’avanguardistica pubblicità al sapor di varietà.
E ora, la giornalista Fabiana Giacomotti – collaboratrice de «Il Foglio» e «Sette», nonché autrice della deliziosa guida «La Milanese chic» (Baldini Castoldi Dalai) – dedica un’intera sezione del sontuoso e rigoroso volume iconografico «La tv alla moda. Stile e star nella storia della Rai» (Silvana e RaiEri, 200 illustrazioni a colori, pp. 280, euro 34,00) a scandagliare le strabilianti mise indossate dalla Mazzini nelle singolari location scovate da Piero Gherardi per «Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet», il film mai realizzato da un incerto e incespicante Federico Fellini in tandem con un’alternante ridda di professionisti ormai inviperiti (Dino De Laurentis lo affronta in tribunale, Mina rifiuta l’ingaggio da attrice, Totò declina, Marcello Mastroianni esasperato sbotta, Paolo Villaggio in sospeso e il fido Piero infrange ogni legame).
Ecco, allora, l’immaginifico Gherardi all’opera in qualità di art director, nel biennio 1966-67: regista scenografo costumista. E, con lui all’artistico timone, vampeggia l’alba di un nuovo metalinguaggio estetico, condito d’ironia tecnicamente autoreferenziale: l’allestimento futuristico – quasi sempre industriale o ingegneristico - si disvela set da videoclip ante litteram, mostrando scorci di un backstage in fieri tra cavi e telecamere; ogni outfit sapientemente costruito dalla sartoria Mayer, viene architettonicamente articolato in una grammatica inebriante e declinato in una sintassi abbagliante.
Nove caroselli in toto e solo alcuni capi basic, dagli ineccepibili tagli haute couture (cady, crespi doppi, satin a otto fili): due fourreau neri quasi identici, una semplice veste grigia, un lineare peplo bianco, una cappa in plissé soleil.
E poi, il sapido contorno di geometrici stratagemmi di maniche orli mantelli acconciature: tutto adattabile modulabile assemblabile, nell’illusione di spume di tulle e chiffon; eppure, è solo un ludico avvampo di spettacolari raggiere di crine sintetico e penne di fagiano tinte e ritorte su umili fili di ferro.
È la conturbante «Collezione Gherardi per Mina», impregnata di una concezione teatrale dell’abito infinitamente scomponibile e ricomponibile, in un eterno barocco capriccio di trompe l’oeil, in cui il sogno si smonta e le fantasiose toilette sono spose silenziose di auree melodie.
Ed è subito metamorfosi, grazie alla bizzarria dell’artificio: da ragazza yéyé e urlatrice scanzonata, l’ex frontgirl degli Happy Boys - già consacrata regina dallo show biz come osannata cantante e conduttrice spigliata - diviene diva stralunata e surreale, tutta enigma ed eccentricità, e raffinatissima musa dalle sbalorditive performance canore e recitative, cristallizzandosi nell’immaginario collettivo, forgiata da indelebili feticci visuali: le continue camaleontiche sembianze, la ieratica gestualità a ghermire lo schermo, la trasfigurante espressività mimica, il focus sui tre caratteristici nevi facciali.
Così, in «Ta-ra-ta-ta», avvince in versione finta geisha, ondeggiante in un long dress nero a trapezio con scollo posteriore e ali di crine a mo’ di gigantesca corolla floreale, simile a volute fumose (il «fumo blu» dei versi), di contorno ai capelli corvini, raccolti languidamente in due bandeaux laterali à la Vierge e a un incarnato diafano da ninfa di porcellana.
A contrasto, l’ambientazione: collocata in un cantiere edile di un imponente edificio di pilastri di cemento armato, tra il lavorio della troupe e il dinoccolato andirivieni di un’altalena. Invece, in «Se telefonando», avviluppa lo spettatore come una visionaria Gorgone, avvolta in un total black e pettinata come un’ellenica dea hollywoodiana, rimestando le braccia aggrovigliata in un caotico teorema di corde e cordoni di crine, un po’ serpenti sibilanti un po’ fili telefonici, tra le coperture piramidali della stazione di Napoli Centrale e sullo sfondo, all’orizzonte, il subdolo Vesuvio.
Infine, in «Mi sei scoppiato dentro al cuore», incede maliarda in uno studio di posa, tra una selva di lattiginosi palloncini guizzanti, con le movenze felpate di una sinuosa Medusa, imbottigliata in un tenebroso evening dress con spacco laterale e impennacchiata di un monumentale copricapo di piume ritorte e spezzate, poggiate su testa e decollété come umoristiche zampe di ragno vacillanti.
Poi, abbarbaglia ancora, sempre poliedrica e cinematografica: in «EbbTide», incipriata della schiuma di una battigia marina, tra gli sventolii di un immenso ventaglio e gli sbuffi ventosi dei lembi di una cedevole tunica nivea; in «L’ultima occasione», intabarrata in un’avvolgente palandrana notturna e bucolicamente spersa tra prati ed armenti; in «Mai così», ammantata di uno sfarzoso strascico di una doppia mantella blu e nera, tagliata a bolli asimmetrici.
E anche: in «Non illuderti», incastonata in favolose maniche circolari alla Roberto Capucci, quasi ali fiabesche, plissettate e bordate in point d’esprit; in «Sono come tu mi vuoi», incapsulata in un ingarbugliato e traforato effetto macramè; in «Una casa in cima al mondo», affusolata in un candido corpetto a forma di flessuosa calla, sulla scalinata romana del Colosseo Quadrato dell’Eur.
L’incanto di queste artistiche reclame Barilla (di proprietà dell’Archivio Storico Barilla e raccolte nel 2003 nell’ormai introvabile dvd «Mina nei Caroselli Barilla» e nel 2013 nell’ahimè edizione limitata del lussuoso cofanetto di Mina «InDVDbile») è ora rievocabile, a parte nell’incisivo saggio della Giacomotti (con foto dagli archivi Rai, Barilla, Sartoria Mayer, Sartoria The One), in qualche stralcio su You Tube (sul canale Mina Mazzini Official) o in alcune immagini sul sito della sartoria Mayer (gabrielemayer.it).
Ma questa smagliante antologia di mirabilia e memorabilia rammenta anche la solerte operosità delle Sorelle Fontana dedite, con un’astuta strategia di publicity - già in voga a Los Angeles per la notte degli Oscar - a curare lo star look sanremese: alla fine degli anni ‘50, Zoe e Micol partono dal centro di Roma alla volta della riviera ligure, in occasione del Festival della Canzone Italiana, per predisporre un pioneristico showroom ad uso delle partecipanti, con sarte a disposizione per le opportune modifiche. Oppure, qualche accenno allo speciale monografico del programma di moda «Linea contro linea» (1967), dedicato al pratico prêt-à-porter delle designer di Traversetolo o alle incursioni televisive con le creazioni in vetrina, come la sfavillante robe de soirée sfoggiata da Mina in «Sabato sera» (1967).
E ancora, in questo intrigante florilegio della tv generalista di Stato: le gemelle Kessler sgambettano, guarnite di pagliaccetti di strass by Folco Lazzeroni Brunelleschi (anni ’50) o di tuniche di paillettes by Corrado Colabucci (anni ‘60); Raffaella Carrà scandalizza, strizzata in un crop top bianco, abbinato a pantaloni e stivaletti ton sur ton, a firma di Enrico Ruffini per la sigla di «Canzonissima» (1970); Heather Parisi stornella «Disco Bambina», fasciata in un’asimmetrica tutina fluo e multicolor di Franco Laurenti, nell’ouverture del glorioso «Fantastico» (1979); le ruspanti ragazze Coccodè dimenano il kitsch con le crestine di pannolenci e le codine di lattice espanso, ideate da Graziella Pera per «Indietro tutta!» di Renzo Arbore (1987); invece, Ornella Vanoni gorgheggia nelle sue apparizioni sul piccolo schermo prediligendo gli stilisti Walter Albini, Ferré, Versace e Mila Schön.
È lo stile Rai, un unicum di tele-moda, sorto, nel 1954, con il Programma Nazionale (poi Rete1 e RaiUno) e indissolubilmente intrecciato all’affermarsi della creatività artigianale del Made in Italy, battezzato, nel 1951, a Firenze, con la primordiale sfilata a Villa Torrigiani (poi si terrà nella Sala Bianca di Palazzo Pitti), grazie a Giovanni Battista Giorgini e Irene Brin.
Insomma, non è la Rai, ma il Paese delle Meraviglie!
La tv alla moda.
Stile e star nella storia della Rai
di Fabiana Giacomotti, Silvana e Rai Eri, 200 illustrazioni a colori, pp. 280, euro 34,00.
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