Stefano Rotta
Centouno sono i cerchi del grande albero Medardo Sassi, che non ha foglie ma grandi mani di contadino, e un cuore forte che da un secolo pompa sangue per sé e per gli altri. Nello, così lo chiamano tutti in montagna - a Villanova di Lupazzano - dove il nome lo dà la famiglia ma poi è faccenda della gente, è nato il 27 novembre 1913. C’era ancora l’Impero Austro-Ungarico, Verdi era morto da una dozzina d’anni. Doveva ancora esplodere la Prima guerra mondiale. L’Italia era una monarchia e nessuno immaginava chi fosse Benito Mussolini. Così di guerre ne ha prese due, belle grosse, e poi tutto il resto: la fatica, il sudore, i sacrifici, la famiglia e i figli, che non «dovevano patire quel che ho patito io». Una frase che si ripete nei grandi vecchi, gente che dopo una vita da bue nelle braccia e da gentiluomo nella testa ha ancora lo slancio verso futuro, che non è la navicella spaziale ma il sorriso dei nipotini.
Gli altri cinque fratelli, più giovani, sono tutti morti. Nel 1940 il matrimonio in San Vitale a Parma, viaggio di nozze alla Cisa col calesse. Medie in seminario in collegio a Berceto, anche lassù in calesse. Il secondo conflitto mondiale lo affronta nel Genio, «non attaccavamo, ci difendevamo e basta. Dopo un breve periodo sono stato mandato in Corsica, e poi a casa in licenza, essendo l’unico che poteva mandare avanti l’attività agricola di famiglia».
Racconta, seduto sulla sua sedia, lucido e tutt’altro che stanco, semmai posato: «Vengo da una famiglia contadina. Fino al 1960 ho lavorato la terra. Dopo un periodo di ricerca, ho trovato posto come magazziniere la notte, al pomeriggio continuavo a lavorare la terra». A Isola di Capoponte, nella canonica, faceva da campanaro e fattore del prete, don Giovanni Bucci. Ci rimane dal 1952 al 1960. Alla morte di don Giovanni, nel 1960, si trasferisce a Parma per riunire la famiglia, con i figli che studiavano a Bologna e Parma, consentendo loro di proseguire gli studi; la figlia Maria oggi è medico ematologo all’ospedale di Parma. All’età di sessantatré anni va in pensione, lasciando l’occupazione dal corriere Ziveri-Cavalli, e comincia l’attività presso il laboratorio geotecnologico emiliano dov’era comproprietario il figlio Pierluigi. Vi rimane fino all’età di ottant’anni. Finalmente la pensione completa, che non riguarda mai la campagna. Ha sempre goduto di ottima salute. Perché tutti questi enormi sacrifici? «Avevo la famiglia da mantenere». D’inverno le mele, le arance solo a Natale. Per il resto le cose della terra, sprelle, radicchio, un po' di stracchino e pesto di cavallo. Che ben prima di essere un rito chic del sabato cittadino, è stato una piccola bomba proteica per tanti lavoratori dei campi, soprattutto i più difficili, su per i monti. «Allora non c’era nessuno disoccupato, erano tutti utili». I figli di sessant’anni di matrimonio si chiamano Pierluigi, Gianfranco e Maria. Quando chiediamo del più bel giorno della sua vita, risponde appunto così, che quel traguardo è stata la data con più luce. «Ho trovato una brava donna», riassume in cinque parole una vita secolare. Fa tenerezza che lei si chiami come lui, Nella Magri. Nello e Nella. La cosa bella, la «grande bellezza» possiamo dire, è che fino a 99 anni è stato visto armeggiare con i cingolati che usano quassù, per battere una terra così dura, ma che lo ha nutrito e reso duro, così d’avergli permesso di tornare a casa dalla guerra e arrivare ben oltre uno dei secoli più complicati e rivoluzionari della storia dell’uomo in Europa. Ha lavorato senza mai smettere, come se lavoro e vita fossero una cosa sola. Con tutto l’entusiasmo di questo mondo, dall’alba ben dopo il tramonto. Domenica no, «la domenica è sacra».
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