Gabriele Grasselli
E' morto a nemmeno diciott'anni, in un pomeriggio di festa, un pomeriggio caldo, quattro giorni prima della fine delle scuole. Aurelio frequentava il Rondani, quarto anno. Ieri era sul tetto di un capannone, uno di quelli della ex Cerve dismessi da anni: a un certo punto i suoi piedi sono finiti su una superficie leggera, friabile. E lui è caduto, è sprofondato all'interno dell'ex fabbrica. Per almeno dieci metri. Uno schianto tremendo. Niente da fare.
E' successo intorno alle 19. Gli amici che erano con lui, due ragazzi più o meno coetanei, terrorizzati sono usciti di corsa dal capannone, hanno attraversato quel piazzale che ormai è diventato quasi un bosco, un terreno pieno di immondizia, vetri rotti, rifiuti ingombranti, pezzi di tutto. Un piazzale in cui in realtà non sarebbero dovuti entrare. Sono usciti in via Genova, la strada dalla quale erano penetrati all'interno dell'area. Hanno chiamato aiuto, hanno chiamato i genitori, gli amici. «Aurelio è caduto, s'è fatto molto male, venite...».
Si è messa in moto la macchina dei soccorsi. In via Genova sono arrivate ambulanze, mezzi dei Vigili del fuoco, i Carabinieri. Ma Aurelio, Aurelio Sokoli, di origini albanesi, 18 anni fra due settimane, la festa già in programma, è rimasto là per terra. Cosa sia successo precisamente non è chiarissimo. Aurelio e i suoi due amici sono entrati nell'area. Hanno scostato una cancellata a rete. «Di solito è tenuta chiusa da un fil di ferro», dice un residente nella via. «Sì, ma ultimamente era solo accostata», replicano altri due. Il cartello «è severamente vietato l'ingresso» c'è. Ma ieri pomeriggio i tre amici sono entrati lo stesso.
Racconta un altro compagno accorso sconvolto accompagnato dalla mamma («Ma è vero? E' proprio Aurelio?»): «Mi hanno detto che voleva arrampicarsi su quel traliccio bianco, quello alto. Ma poi ha preferito salire sul tetto del capannone». Con gli altri due quindi è entrato nel falansterio diroccato. Non si sa con precisione se siano saliti tutti e tre con le scale di ferro che ancora resistono all'interno dell'edificio.
Pare che si siano diretti sul tetto almeno in due, l'altro deve essere rimasto giù. Devono aver trovato un passaggio per issarsi sul tetto. Poi Aurelio ha iniziato a camminare. Un passo, due. L'ebbrezza dell'altezza, intorno un panorama urbano desolato, fabbriche dismesse, ciminiere abbandonate, forni silenti, muri sbrecciati, ferro arrugginito, un nulla spento che era stato un complesso produttivo alacre, di qua, verso via San Leonardo, la Bormioli, dal lato opposto, su via Paradigna, la Cerve. Ma da lassù, a dieci metri, Aurelio deve aver avuto pur sempre una visuale ampia, libera, sugli alberi lontani, sul cielo al tramonto. E lui, sportivissimo, mai fermo, insaziabile di emozioni, un appassionato di «parkour», quella disciplina metropolitana che con volteggi, salti, scalate, arrampicate, permette di superare gli ostacoli quasi volando, si sarà sentito invincibile e felice.
Un altro passo, un altro ancora. Ma a un certo punto il soffitto fradicio ha ceduto. all'improvviso. E Aurelio è precipitato. Un tonfo. Fine.
Pochi minuti dopo uno dei suoi due amici stava piangendo disperato in via Genova, vicino al padre e all'altro amico. Hanno dovuto raccontare ai carabinieri cos'è successo. L'hanno dovuto fare lì, lontano dal posto dove il loro amico era steso immobile. Poi l'hanno dovuto rifare dentro il capannone, dove i carabinieri li hanno accompagnati per la ricostruzione precisa di quello che era successo. E il corpo di Aurelio ancora lì, in attesa delle procedure di rito, in attesa che il carro funebre lo portasse via. In attesa che qualcuno trovasse il coraggio di dire ai suoi genitori che il loro figlio non sarebbe più tornato a casa.
LE TESTIMONIANZE
Roberto Longoni
Delle tre bici appoggiate alla campana del vetro, alla fine ne resta solo una, una vecchia Bottecchia grigia, con il lucchetto sul manubrio. Aurelio, che poco prima l'aveva lasciata davanti al varco aperto nella recinzione tra via Genova e l'area ex Cerve, non ci salirà più in sella. Il suo corpo senza vita è a terra, nel capannone nel quale è precipitato. E' ancora lì, coperto agli sguardi dei passanti, quando da un'auto che si ferma su via Paradigna scende un ragazzo accompagnato dalla madre. La vista dei carabinieri che bloccano i curiosi al cancello gli dice già quello che non vorrebbe mai udire. Ma lui prova lo stesso a chiedere, nella speranza che una voce possa svegliarlo dall'incubo.
«E' davvero morto un ragazzo qui dentro?» La risposta viene con il peso di un silenzio tremendo. L'amico si guarda intorno, torturandosi le mani, togliendo e rimettendo il cappello in testa. «Dovevamo vederci - mormora -. Mi aveva detto che avrebbe dovuto comprare qualcosa in centro e che poi sarebbe stato in giro. Ma io avevo da studiare. Fossi stato con lui, gli avrei impedito di salire lassù». Per tutto il pomeriggio l'amico ha provato a chiamare Aurelio. Ora rilegge l'ultimo messaggio sul cellulare, Un laconico «dopo, ciao» che sembra un pugno allo stomaco.
Non ci sarà più un «dopo», per questo studente della IV D del Rondani, appassionato di palestra e da sei mesi anche di pugilato, «meraviglioso e benvoluto da tutti, bravissimo a scuola», che ha pagato troppo caro forse la sua passione per il parkour, ispirato dalla spericolata spensieratezza dei suoi 17 anni. Ne avrebbe compiuti 18 proprio il 20 di questo mese. «Gli era appena stata data la cittadinanza italiana - racconta la professoressa Sabrina Michelotti -. Mi aveva mostrato il certificato elettorale. “Ma se non sono nemmeno maggiorenne? Non posso ancora votare” aveva esclamato, sfoderando un sorriso pieno d'orgoglio».
In lacrime, la professoressa d'italiano e storia ricorda quanto quell'allievo, che voleva diventare ingegnere edile, si impegnasse, per parlare e scrivere la lingua alla perfezione. Proprio come chi è di famiglia italiana. «Era arrivato a meritarsi l'8 in pagella. Era appassionato anche di storia, dei problemi dei lavoratori: chiedeva come si potesse fare per migliorare il mondo». Lui, nel suo piccolo, già ci provava. Ne sanno qualcosa i compagni di classe, «con i quali era così affiatato - spiega Roberta Roberti, la professoressa di italiano e storia che lo ebbe al biennio -. Un ragazzo sorridente e positivo. Grande e grosso, ma di un buono... Aurelio veniva da una famiglia molto unita, dai valori sani e forti». Un padre, una madre e una sorellina colpiti al cuore nel pomeriggio di un giorno di festa. Il padre è riuscito ad arrivare dalla casa di via De Ambris fino al varco tra l'area ex Cerve e via Genova, prima di crollare. I carabinieri hanno cercato di dargli conforto, caricandolo sull'ambulanza che lo ha portato via, al Maggiore. A pochi metri da quell'unico figlio maschio, ormai irraggiungibile.
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