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Testi, dalla ritirata di Russia al lavoro sul Po

Testi, dalla ritirata di Russia al lavoro sul Po

06 Settembre 2015, 09:37

Stefano Rotta

Si usciva in quattro a notte alta, sul fiume, con la magana, per guadagnarsi il pane. «Che sapevan portare la barca anche allora ce n’erano pochi». Francesco Testi è un antico uomo di fiume, una roccia d’uomo, abituato negli anni alle fatiche umide e roventi dello stare in acqua. Nacque il 28 ottobre 1921 a Gramignazzo, dove tutt’ora vive, novantaquattro anni dopo. Il padre Domenico era sabièn, sabbiaiolo, cavava sabbia in Po per vivere. Mestieri di spalle e polsi, a badile, conoscendo e affrontando il pentagramma della corrente in camicia bianca e bottiglia di rosso. Di 750 del loro gruppo, dalla Russia vennero a casa in 48. L’otto settembre si trova a Legnago. «Abbiamo rubato una barca e siamo venuti a casa a piedi. In Ucraina siamo stati vestiti da una famiglia». Quando si dice «scafato» di una persona vissuta... Facevano i ponti per gli Alpini che andavano in avanscoperta. Un anno così, poi il cambio. Niente geloni. «Tutto bene quel che finisce bene», continua a ripetere come un mantra. Sono passati sotto le forche di prove enormi, a volte tenendosi il cuore caldo con lo sterco degli animali, preoccupati di non vedersi le interiora congelare. Con Francesco salpavano i fratelli Catelli, Dino e Osvaldo, e i fratelli Pievano, Gianni eBruno. Narra: «La magana nuova la facevano a Cremona. Si prendeva un grande albero di “arice” (nome volgare con cui si chiama il larice, ndr), per il cavo. Costava cinquecentomila lire, una fortuna nel dopoguerra. Non ne esistono più. «Si cavavano venti metri quadri di sabbia, tre o quattro camion. Prima che arrivassero i nastri trasportatori, la si portava su a mano. Tutto a badile, con le barelle». Ritmi da miniera, distacchi da guerra: «Stavo via dei mesi, con la cooperativa». E’ il discorso di sempre: torni vivo dalla Russia e sei in grado di affrontare tutto. Con un fiume di cinque o seicento metri di larghezza, non ancora del tutto imbrigliato, gli abiti stretti sulla testa e via, s’andava dall’altra parte uscendo la sera. Chiaro di luna e alba, per lavoro e per amore, che vita questi uomini. Il ricordo più bello? «Quando si andava a portar via i pioppi e ciapav quèl», e si prendeva qualcosa. Il matrimonio nel 1944, sua moglie Anna Fogliati lo ha aspettato a casa dalla guerra come Penelope. Tornò dalla Russia, quando ancora qui bombardavano. Li sposò don Dante Pirondi, con gli apparecchi in cielo tra i campanili. Tempo di coprifuoco, di mucchi di neve e di levatrici, il figlio non voleva nascere, ma senza scomporsi, saggio come la roccia levigata da tanta acqua, ripete solo, «tutto è bene quel che finisce bene». Che tempi. Che porte aperte verso l’eroismo nel lavoro di tutti i giorni. Com’è difficile scrivere di questa gente senza sentirsi piccoli e insignificanti di fronte alla loro scorza, alla loro resistenza, energia, umiltà, dignità, così deboli di fronte alla grandezza del loro lavoro e in ultimo del loro essere. «I temporali o si prevedevano o si prendevano. Se veniva giù grandine si stava dentro Po col cesto del pesce in testa. Con la magana non siamo mai andati a fondo. Di cadaveri se ne trovavano diversi, fra morti annegati e suicidi. Li portavamo alla camera mortuaria di Sissa, ma il sindaco di allora un giorno ci disse, “lasì andà, per noi è una spesa”. I giorni in cui il fiume più si riempì di anime fu nella primavera del 1945, quando molti tedeschi in fuga, pronti a tutto, lasciarono le penne». Disertò Salò, niente, neanche coi partigiani, «ne avevo viste già troppe in Russia». Gioventù dura, bruciano i ricordi: «Toglievamo gli abiti, li scuotevamo e li mettevamo sui forni della stufa: strategie antipidocchi. Ci si lavava in Taro, il bagno non c’era. Non era il sudore a dar fastidio, erano i pidocchi. D’inverno ci si lavava molto poco, si facevano i bagni con la cenere. L’inverno si faceva il legname. Si andava a Po a fare fascine coi pioppi. I muratori non lavoravano col freddo, negli inverni di allora. Si andava nel bosco, si ammazzavano i maiali». Lo chiamavano Ciscàt in paese. Fattosi uomo comincia a lavorare in un’impresa sul fiume, la Cima, fino alla pensione, nel 1982. Si occupano anche di erigere difese spondali, i cosiddetti «pennelli». Gramignazzo è la New Orleans del parmense, ingramignata per bene a terra tra due fiumi, il Po a mezzo corso e il Taro alla sua massima importanza, 126 chilometri di anse e drittoni dopo il Penna. Una volta furono beccati, in sette o otto, sgraffignare un po’ di legna in un bosco sul fiume. Finirono dal giudice, furono bravi a parlare nel loro dialetto, usando termini ostrogoti ignorati dalla giustizia italiana (che peraltro ha sempre usato gli stessi mezzi linguisticamente oscuri con la gente). Il giudice domandava, «ma una lotta che cos’è?», non è certo un combattimento ma una frana; seguirono la strada che gli alberi sarebbero caduti in fiume essendo ceduto il terreno. Infine il giudice, lo immaginiamo come brava persona prim’ancora che reggitore della bilancia, quasi li premiò, «questa è gente che ha bisogno di legna per vivere», si lasciò scappare. O almeno così la leggenda. Fu nel genio pontieri. Costruirono il ponte militare a Legnago. Era amico di Vittorio Rossi, uomo di Roccabianca, la prima storia raccontata in questa rubrica nel giugno 2011. A dieci anni si va a raccogliere legna per la famiglia. Anche a pescare, «tutte pesche non permesse dalla legge», evidenzia, ma la fame e il millenario equilibrio fra creato e creature, fino al Dopoguerra, regnarono nelle campagne ben più delle leggi di stati e principati. Vita di nasse, bilancione, anguille. «Lo storione lo andavo a pescare in società con lo zio. Si adoperava la maggiora, rete apposita. Il caposquadra era Marcello Foglia, poi il cugino Angiolino Magni. In agosto, già raccolto il frumento, si andava a pulire dalla legna il canale del Po. Eravamo una squadra, in sei. Lo storione salta fuori quando saltano i pesci, i cefali. Si andava alle quattro del mattino, fino alla notte dopo. In parecchie giornate non si prendeva niente, ma si puliva il canale dalla legna. Una volta portai a casa un fascio di legna con dentro uno storione piccolo...». Tutto a forza di braccia: «Ci trovavamo alle tre del mattino con secchi pieni di carpanei, di carpe, non sapendo cosa farcene, andavamo in giro a venderli». E’ stato il loro dovere, con dignità l’hanno compiuto. Nessuno si sarebbe mai sognato di esser chiamato eroe, roba da libri, da romanzi, da storie e principi, bastimenti e mari tropicali. Ora che anche gli ultimi uomini d’acqua dolce se ne stanno andando, a loro il titolo e il merito d’eroi, semmai serva a qualcosa. Non c’è mai un «io» in questa storia, c’è sempre un «noi», e guarda caso le due parole – eroi e noi – fanno rima baciata.

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