Massimo Sperindè
Ero a Tokyo per le Olimpiadi del '64 quando mi avvisarono che l'anno successivo sarei passato “pro” con la Salvarani, di Parma. Ne fui subito entusiasta: era la squadra di Adorni, di Pambianco, di Taccone, del “re” del ciclocross Longo. Era un po' quello che oggi è la Juventus nel calcio. Entrare a farne parte un grande onore, una grande opportunità, che colsi. E di cui non mi sono mai pentito».
C'è un sapore particolare nel racconto di quel momento, il gusto dolce che accompagna l'avvio della storia avvincente di un'icona mai sfiorita del pedale: quella del grande rivale del mitico Eddy Merckx, di quello che è probabilmente stato l'osso più duro che il «cannibale» abbia mai tentato di rosicchiare. Tanto duro da andargli anche di traverso al belga, più di una volta.
Perché lui, Felice Gimondi da Sedrina, classe '42, bergamasco indomito e testardo, del fuoriclasse fiammingo dominatore del ciclismo mondiale a cavallo tra i favolosi '60 e i ruggenti '70 è stato il più fiero e combattivo avversario. Ed è diventato un mito anche lui, «nonostante» Eddy Merckx; nonostante sia stato corridore «ai tempi del cannibale»; nonostante la sfibrante lotta per strappare al più vincente di tutti i tempi qualche traguardo, qualche maglia, qualche sorriso sul podio.
«Era davvero un “mostro”, Merckx - riprende infatti a raccontare con un sorriso tra l'amaro e l'ammirato lo stesso Gimondi - perché voleva vincere sempre. Sempre. Era fortissimo su tutti i terreni, puntava a tutti i traguardi: da febbraio a ottobre, dal Laigueglia al Lombardia, non mollava mai. Eddy era il migliore, non ho mai avuto dubbi. In molti dicono che sia stata una sfortuna correre nella sua epoca e sicuramente, se non ci fosse stato lui, avrei vinto qualcosa in più. Ma forse è stata proprio la mia fortuna, perché mi ha fatto diventare quello che sono».
«Anche Fiorenzo Magni, ad esempio - aggiunge poi con decisione, dopo un attimo - ebbe la sfortuna di correre nel momento “sbagliato”, ai tempi di Coppi e Bartali. Eppure, o forse proprio per quello, è stato un grande e ha vinto tanto. Come me: perché mi sono tolto anch'io - sottolinea con orgoglio - delle belle soddisfazioni. E tutte le mie vittorie, con uno come Merckx in giro, sono state ancora più gustate».
Niente di più vero: guardando indietro, Gimondi «Felice» può esserlo davvero e sorridere con infinito orgoglio, anche dopo tanti anni, nel soppesare quanto in bacheca ha saputo accumulare, a dispetto della nomea di «eterno secondo». Prima in maglia Salvarani, dal '65 al '72 poi, dal '73, quando l'azienda di Baganzola chiuse il suo gruppo sportivo, con quelli della Bianchi, con cui corse fino a tutto il '78 (con una piccola appendice nel '79). «Sono state le mie due sole squadre - specifica con orgoglio lui - perché non ho mai voluto essere “sul mercato”. Sarei rimasto alla Salvarani a vita, se non avesse lasciato il ciclismo. Ci sono rimasto alla Bianchi, con cui collaboro tuttora».
Nel carniere 141 trionfi (contando anche i criterium) con grandi classiche come la Milano-Sanremo, due Giri di Lombardia o il mitico «inferno del nord», la Parigi-Roubaix. E tutte e tre le grandi corse a tappe: il Giro d'Italia (tre volte, l'ultima nel '76 a quasi 34 anni) il Tour de France e la Vuelta a España. E poi due volte la maglia tricolore (con il belga Merckx fuori dai piedi, almeno qui) e soprattutto quella iridata. Conquistata nel '73 a Barcellona battendo in volata, guarda un po', proprio Eddy Merckx:
«E' stata la vittoria che mi ha dato più soddisfazione - racconta ancora lui - perché ho battuto proprio Eddy in una volata ristretta, nella corsa più importante. Nella fuga decisiva - aggiunge quindi con un sorriso soddisfatto - eravamo in quattro: io, lo spagnolo Ocaña (tagliato fuori dalla volata per le sue caratteristiche) e due belgi, Merckx e il giovane, veloce e rampante Maertens, entrambi pericolosissimi. Però, mentre ci avvicinavamo al traguardo, avevo visto che Eddy non era più al massimo. E nel rettilineo finale ho buttato sui pedali tutto me stesso, tutti i miei sogni, ogni goccia di energia. Sapevo che certe occasioni, quando nella vita capitano, non puoi fartele sfuggire. E non me la sono fatta sfuggire. L'ho battuto, li ho battuti. Quel trionfo lo ricordo come uno dei più sofferti e belli in assoluto».
I ricordi sono infiniti, tra successi, delusioni e mille aneddoti che racconta con semplicità e burbera ironia: vittorie e sconfitte «perché non c'era solo Merckx, allora, ma tanti campioni come lo stesso Adorni, come Motta, come Zilioli, Bitossi, Basso o Pambianco, e potrei citarne tanti altri» che hanno accompagnato una straordinaria carriera, fatta di 14 anni di professionismo. Iniziati proprio qui, come si diceva all'inizio, a Parma, dove nei giorni scorsi è tornato per una rimpatriata in onore della Salvarani: la presentazione di un bellissimo libro di Alessandro Freschi e Paolo Gandolfi, sull'epopea della famiglia e dell'azienda che con il loro gruppo sportivo dominarono il ciclismo nel decennio a cavallo fra gli anni '60 e '70, è stata l'occasione per riportarlo dove, per il Gimondi destinato a diventare «mito», tutto è davvero cominciato...
«Sì, qui sono passato professionista nel '65, qui è iniziata la mia avventura nel grande ciclismo. Sono entrato nella squadra di un grande campione come Adorni, che mi ha subito accolto e guidato nel mondo del professionismo, tanto da ospitarmi anche a casa sua per una settimana, qui a Parma! Ma c'erano anche molti altri compagni fortissimi in quella squadra, che mi hanno aiutato e hanno reso possibili tante imprese, tanti successi».
Tra cui il Tour subito, all'esordio, a 22 anni (ne avrebbe compiuti 23 a fine settembre). Una sorpresa clamorosa che fece conoscere all'intera Italia una nuova «stella»...
«Però da dilettante - sorride lui - avevo già vinto il Tour de l'Avenir, l'anno prima. C'è una “leggenda”, sopravvissuta per tanti anni, che racconta come io sia andato a quel Tour solo perché un mio compagno, già designato, non era a posto fisicamente. Ma non è mica vero: la verità - spiega con convinzione - è che Luciano Pezzi (il d.s. della Salvarani) aveva visto che andavo fortissimo e mi ha voluto portare! Magari non pensava che arrivassi addirittura a vincerlo, il Tour - ride - ma di ciclismo ne capiva...»
D'altronde, in quello stesso anno, il debutto in una grande corsa a tappe era stato più che brillante, con il terzo posto nel Giro d'Italia vinto proprio dal parmigiano Adorni. Amico, mentore e compagno di squadra che nella serata dedicata alla Salvarani era, naturalmente, lì con lui, a scambiare battute e intrecciare ricordi. Perché Gimondi, all'appuntamento dedicato alla rievocazione di quella grande squadra non è voluto mancare, a dispetto di un busto che lo irrigidiva «colpa di una stupida caduta dal carrello per raccogliere l'erba - specifica con una smorfia - che mi è costata la frattura di una vertebra». Per riabbracciare i fratelli Salvarani presenti «che per me sono stati molto più che titolari della squadra, sponsor o datori di lavoro. Certo, con le nostre vittorie stavamo contribuendo al successo del marchio, ma il rapporto con loro è stato molto più profondo: sono stati veramente una seconda famiglia - racconta con sincerità - di cui sono onorato di aver fatto parte e cui sarò sempre legato».
Poi aggiunge, con un filo di evidente commozione: «non potrò mai dimenticare che uno dei momenti più tristi della mia vita fu la scomparsa di Luigi e sua moglie in un incidente automobilistico. Era uno dei fratelli Salvarani con cui avevo più legato, tanto che mi aveva anche chiesto di essere il padrino della sua bambina».
E un altro momento bruttissimo, che non manca mai di ricordare, fu per lui come per tutto il ciclismo italiano la morte di Pantani, di cui era stato presidente ai tempi della Mercatone Uno.
Poi la commozione si stempera tra i mille ricordi che emergono nelle parole che regala con semplicità, nonostante la fama da taciturno che da sempre l'accompagna: «ma lo ero e lo sono. Un bergamasco testardo e di poche parole. Non come Vittorio - sorride accennando all'amico Adorni, lì accanto - grandissimo e carismatico, in bici ma anche con le parole. Io sono più riservato, ma non per questo meno deciso. Se devo farmi sentire, lo faccio».
Però, di farsi sentire sul ciclismo moderno e i suoi «problemi» non ha molta voglia: «lo seguo poco, ultimamente» sintetizza senza troppi giri di parole lui.
Almeno, visto che siamo a Parma, una battuta su un corridore di grande talento (e proprio a cronometro, specialità di Gimondi) e altrettanta sfortuna come Malori...
«Ha davvero vissuto un anno terribile - concorda Gimondi, con espressione dispiaciuta - incredibile. Ma sono certo che si riprenderà, perché è giovane. E poi è bravo, a cronometro può ambire ai massimi traguardi. Tornerà quello di prima, ne sono sicuro».
«Però - riprende subito - come dicevo seguo poco il ciclismo d'oggi e i suoi problemi sono sotto gli occhi di tutti. Io ho preferito dedicarmi solo alla mia squadra di mountain bike, con i colori della Bianchi, che dopo la Salvarani è stata l'unica altra mia squadra».
Restiamo su Parma e le sue squadre, allora: dove una volta c'erano la Salvarani, la Salamini o la Scic, ora c'è la Bardiani, che lavora benissimo con i giovani:
«E' quello che le nostre squadre possono e devono fare, adesso, non potendo competere a livello economico con i grandi team. Ai miei tempi in Italia avevamo una decina di squadre al top, ma ora è cambiato tutto, con le potenze economiche internazionali che sono scese in campo».
«Il fatto - precisa - è che il nostro era un ciclismo diverso. Dopo di noi - e indica con la testa Adorni, lì vicino - ma diciamo pure dopo l'era di Moser e Saronni, i cambiamenti sono diventati sempre più evidenti. Più tattica, più tecnologia, tanti, forse troppi, più soldi. E non voglio aggiungere altro».
Sono problemi che, semmai, si troverà ad affrontare sua figlia Norma, candidata alla presidenza della federciclismo...
«Non so perché si è buttata in questa avventura. Ha già tanto da fare come avvocato, io ho cercato di dissuaderla! Però è brava, è appassionata, testarda come me. Sarà durissima, ma vedremo. Al limite prenderà una bastonata, come ne ho prese tante io da Merckx...»
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