Roberto Longoni
Qualcuno ci mette le mani al collo? Per liberarsi dalla morsa, ci sono due mosse semplici quanto efficaci: afferrare i mignoli dell'aggressore e tirarli verso l'esterno. Oppure, fare leva con le nostre braccia tra le sue, dopo aver unito le mani. Lo spray al peperoncino contro chi viene incontro con propositi ostili? Utile solo se lo si spruzza indietreggiando: altrimenti finisce accecato anche chi cerca di difendersi. E poi ci sono i ricatti, le minacce, le aggressioni verbali, i gironi quotidiani dell'inferno domestico-sentimentale alla fine del «c'eravamo tanto amati». Come li si affronta? Non c'è una violenza sola, ce ne sono almeno quattro, ricorda Laura Castaldini: «Fisica, psicologica, sessuale ed economica. Quando si parla di violenza, si dovrebbe fare come il nostro sistema immunitario: bisogna riconoscere il pericolo come il sistema immunitario riconosce virus e batteri». Quattro tipi di violenza, per una battaglia da combattere su due fronti, in estrema sintesi. La psicologa-psicoterapeuta è impegnata su uno di essi, nei corsi di difesa personale realizzati con il Comune, per «Donne tutto l'anno», ai quali dal 2012 a oggi hanno partecipato centinaia di parmigiane. Dalle adolescenti alle ultrasettantenni: in questi mesi sono 350 le donne iscritte. A Cristian Pallamidesi, insegnante di qwan ki do spetta invece la parte «fisica», con quattro dimostrazioni dell'arte marziale cino-vietnamtica che permette di avere rudimenti immediati per uscire da situazioni di pericolo. Mosse nelle quali si insegna ad andare oltre o anche contro l'istinto, per prendere in contropiede l'aggressore. Come quelle descritte prima o ad esempio gridando «al fuoco» anziché il classico «aiuto», per avere qualche chance in più di ottenere le attenzioni di chi può venire in soccorso. «Difendersi». E ricordare che «tutti siamo esposti»: tutti possibili persecutori e tutte possibili vittime ricorda Laura Castaldini, aggiungendo che «si definiscono violenti i comportamenti o gli atti che mettono la donna in condizione di potere e di controllo da parte del partner. Fino a farla sentire in trappola». Di solito, è da qui che si parte, dopo aver creato un clima di terrore attorno alla donna e averla isolata dalle amicizie e dal contesto lavorativo. L'escalation che ne segue può condurre a esiti anche tragici. «Le donne in trappola perdono la loro autostima. Inoltre, la donna spesso si sente responsabile del buon andamento della relazione, costretta quindi a sopportare e a tacere. Non solo. Spesso, le stesse vittime hanno la sensazione di essersi meritate le violenze».
Le vittime devono innanzitutto affrontare l'ambiguità della situazione (ci sono pur sempre dei sentimenti in ballo) e la vergogna. Doveroso a questo punto ascoltare i messaggi del corpo che segnalano un malessere. Quali sono? «Si va dall'apatia alla difficoltà d'attenzione e concentrazione, dall'instabilità emotiva all'ansia, all'abuso di droghe, alcol e psicofarmaci, alla paura e sfiducia verso gli altri, ai problemi nella sfera sessuale». Quasi sempre il copione della violenza di coppia segue tre fasi. «All'inizio le donne segnalano un progressivo peggioramento degli atteggiamenti del partner che diventa sempre più aggressivo intensificando tutte le forme dell'abuso abituale - sottolinea la psicologa -. Quindi, viene lo scoppio della tensione: si può andare dalle minacce alle umiliazioni, alle botte. E' a questo punto che le donne chiedono aiuto: tacere non serve più a nulla e non si può più non vedere il “volto cattivo” di chi le maltratta». La terza fase è quella che segue la rottura. «La fase della “luna di miele”, durante la quale il partner cerca di farsi perdonare dalla donna. In questi frangenti, diventa dolce e premuroso. Può anche promettere di sottoporsi a una terapia personale o di coppia. Salvo poi rinunciare dopo poche sedute». A questo punto, è solo questione di tempo, perché si riattivi il ciclo precedente. Un ciclo perverso: non se ne esce, se la vittima non ha una buona motivazione per intraprendere un percorso che porti alla conquista della capacità di scelta e della progettualità. «A volte - scuote il capo Laura Castaldini - è necessario arrendersi al fatto che non tutte le donne riescono a uscire dal maltrattamento. Tutto quel che si può fare è aumentare i loro livelli di protezione e la capacità di gestire un po' meglio la situazione». Il percorso può essere molto lungo. «Ma riuscire a dire dei no, trovare uno spazio per sé, cambiare scheda al cellulare per non ricevere più minacce, aprire un conto corrente a proprio nome e altre “piccole” conquiste sono segnali che la mappa del pensiero si sta riorganizzando in un equilibrio nuovo e diverso. Per esistere sappiamo che dobbiamo continuamente trasformarci e al tempo stesso rimanere noi stessi. Bisogna anche essere capaci di rifiutare ciò che non riteniamo compatibile con noi stessi. Ricordandoci che nessuno può permettersi di farci del male». E per ricordarlo bisogna arrivare a diventare madri e padri di noi stessi: preoccupati del nostro bene. «Da amore deve nascere amore, non può nascere morte».
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