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Egisto Corradi, «il nostro inviato»

11 Febbraio 2017, 09:48

EGISTO CORRADI

Da bordo dell’«Ersilia» - Ho impiegato due minuti esatti per portare a termine la mia prima conoscenza con l’«Ersilia». Sessanta secondi sono infatti bastati per piombare a bordo con un salto, dare una occhiata in coperta, scendere a poppa lungo una scaletta sdrucciolosa, visitare la cabina che mi è stata assegnata, attraversare il locale del motore e la saletta da pranzo, risalire di nuovo in coperta. L’«Ersilia» è tutta qui, ormeggiata ad un pontile del porto della Spezia, in una lunghezza di trenta metri ed in una larghezza di sei o sette. La barca potrà sembrarvi piccina, ma vi dico subito che ce n’è a sufficienza per entusiasmare un passeggero come me che da pochi anni ha smesso di deliziarsi di letteratura salgariana. Un bompresso arditamente slanciato a prora, tre alberi vertiginosi carichi di vele, una ruota del timone ch’è un poema a poppa, e — a compire la gioia della vista stupefatta — un candido scafo armoniosamente aggraziato e veloce. Ciò che invece noto subito a malincuore, e che stona decisamente ai miei occhi di ingenuo salgariano, è la presenza di un equipaggio che per quanto ridotto come numero — otto uomini — è completamente intatto nelle sue membra. Ai marinai dell’«Ersilia» non mancano né braccia, né gambe, né occhi. È mortificante ma è così. Il cuoco di bordo, Domenico, s’accorgerà ben presto di questa mia mal celata delusione e penserà bene di zoppicare per un paio di settimane. Dirà d’essere caduto scendendo la scaletta, ma io non crederò poiché è evidente che qui a bordo tutti fanno e faranno a gara per usare gentilezze al passeggero avido di sensazioni. Ed è in omaggio a questa spontanea generale cortesia che Domenico zoppicherà instancabilmente per dodici giorni, da La Spezia a Tobruch. lo sarò illuso ma felice. Grazie, Domenico. Fra un’ora salpo dunque per Tobruch: mille e cento miglia di mare. I cortesissimi fratelli Delfino, armatori spezzini, nell’assecondare questo mio desiderio di viaggio a bordo dl un motoveliero della loro bella flotta, hanno voluto definirlo per lo meno strano. E perché scegliere proprio la brutta stagione? E perché non attendere che la barca avesse un carico meno pericoloso delle tredici e più tonnellate di ogni qualità d’esplosivo che ora sono nella stiva? Spiego — e il mio compagno di viaggio si affanna con me — spiego che questi sono per l’appunto i fattori che daranno sapore al viaggetto. Che sugo ci sarebbe altrimenti? Le mie argomentazioni però non paiono abbastanza convincenti. Pazienza. In altri dieci minuti sembro diventato il padrone dell’«Ersilia», e un padrone meticoloso ed esigente, anche. Ogni cosa a bordo è in perfetto ordine, sono soddisfatto. Le vele sono appena state tolte dalla loro linda custodia di tela verde, tutte le cime sono state ordinatamente abbisciate in coperta. Non c’è un palmo di superficie che non sia stato laccato, tirato a lucido, verniciato con ogni cura. Tutto luccica. Più che una barca da carico, una «carretta del mare», l’«Ersilia» sembra uno yacht o, per dirla in italiano, un panfilo. Si parte. Quando salgo in coperta siamo già fuori del porto e il capitano, appoggiato alla chiesuola della bussola, sta guardandosi qualche carta. «Vale per destinazione di Tobruch» leggo su una di esse, «con nove persone d’equipaggio, il capitano compreso, e due passeggeri. Qui e dintorni la salute è ottima». Intanto che la mia salute è ancora «ottima», faccio conoscenza con l’equipaggio e coi due gatti di bordo. Siamo tredici fra tutti. Alle diciotto scendo nella saletta di poppa per la cena. È la prima volta nella mia vita che ceno in mare e cercherò di comportarmi bene. Pare impossibile che la saletta possa contenere cinque persone, che tanti siamo a sedere a tavola, ma poi ci si sta. Domenico, il cuoco, scivola e volteggia fra noi, con le braccia protese in alto a reggere i piatti. Alle spalle, incannucciate in uno strano scaffale, qualche carta nautica ed un portolano; di fronte, appesi, un barometro ed un termometro. Di apparecchi radio ce n’è uno ricevente che però, dopo lo stretto di Messina, non riceverà più un bel nulla, nemmeno con la sola cuffia. Si discorre lietamente. Bei tipi, questi uomini. Han viaggiato tutto il mondo. Amburgo, Buenos Aires, Sidney e Singapore sono sulle loro labbra come su quelle di un milanese possono essere i nomi di Como e di Brunate. Chi li ferma in questi loro tumultuosi e graditi ricordi? Ettore, il primo motorista, avanza in precedenza le scuse per la barba che non si raderà fino a Tobruch: che lo si voglia scusare, lui non ha la pretesa di essere bello come l’hanno tutti gli altri di bordo. «Sono del vostro parere, caro Ettore - interrompo - anche io fino a Tobruch non mi farò la barba. Saremo ispidi e brutti, ma chi ci vedrà? Trovo delizioso ignorare il rasoio per dodici giorni! Finalmente Domenico, il cuoco pseudo zoppo, è qui con le sue appetitose pastasciutte. L’aria del golfo è frizzantina e il capitano mi fa gli elogi per l’appetito che sembra non essere affatto influenzato dall’oscillare metodico e profondo che fanno il barometro e il termometro a causa del rollio. «Non sapevo - azzardo - non sapevo che il termometro ed il barometro potessero servirmi anche come orologi a pendolo, voi utilizzate al massimo lo spazio. In quanto all’appetito, capitano, non è un merito. Mi dispiace però che non possiate divertirvi col mio mal di mare!» «Vorreste sentire il mal di mare, ora - e qui il capitano protende orizzontalmente la palma della mano ad indicare la calma assoluta - ora con un mare così? Siete modesto, anzi pessimista. Avreste dovuto essere con noi l’ultima traversata del golfo del Leone, un mese fa. Un solo colpo di mare m’ha rubata netta netta la barca di salvataggio». Armando, il nostromo, ed Ettore confermano silenziosi. Ma forse, che confermino tacendo, è una mia impressione. Adagio adagio m’investe la sensazione di vivere in un ambiente immateriale, quasi fuori dello spazio. Che sia il troppo vino bevuto? Quell’ultimo bicchiere dl Aleatico c’era forse di più. Ora scorgo il barometro che ballonzola — troppo, mi pare — e il termometro che lo segue al passo. Lentamente il discorso ed il sorriso mi si spengono sulle labbra. — Che c’è — chiede sonnacchioso ed ironico il capitano — forse mal di mare? — No, no, capitano — sillabo io a stento — credo sia tutto questo fumo di sigarette. Inconsciamente m’alzo, sento anche un po’ di nausea. — Vado a fare una passeggiata in coperta. Ormai intravedo solo una tavola grigia aureolata di bianchi visi sorridenti. Che sia mal di mare veramente? Mi muovo — che sforzo! — a tentoni percorro un budello buio e brancico in cerca della scaletta. Ad ogni passo le pareti sembrano avventarmisi addosso. Che puzza di nafta e che diavolo di baccano fa questo maledetto motore — penso — ancora un attimo e poi sarò su, all’aria fresca, appoggiato alla murata sottovento. Ma no, ora non c’è più dubbio. Caro Corradi, questo è autentico e genuino mal di mare.

IL RITRATTO

MARGHERITA PORTELLI

Semplicemente il nostro inviato. Egisto Corradi questo è stato: reporter di razza, giornalista innamorato del mondo, devoto al lettore e alleato – incorruttibile – della verità. Nato a Parma nel 1914, ha lavorato quasi trent’anni al «Corriere della sera», per poi seguire Montanelli nel 1974 e, con lui, partecipare alla fondazione de «Il Giornale». Curioso di natura, galantuomo tanto nell’animo quanto nella penna, aveva girato il mondo: era stato tra i pochi testimoni della rivoluzione ungherese del 1956, aveva raccontato gli eventi in Congo e Vietnam, la Primavera di Praga, la Cina del dopo Mao, la Corea del Sud, l’Iran, l’Afghanistan.

Era uno di quelli che lui stesso aveva definito «giornalisti viaggianti»: alla perenne rincorsa dei fatti, votati a un mestiere incantevole e faticoso. «Dove sarò domani, dopodomani, tra una settimana? – si chiedeva scrivendo a Baldassarre Molossi all’inizio degli anni Sessanta, in una lettera che pubblichiamo in parte in questa pagina - Forse ancora qui o ad Atene o a Bari o ad Abbiategrasso o a Castrocaro Terme (Forlì). Io, caro Molossi, non so mai dove sarò più tardi, tra un’ora, tra un giorno, tra un mese. Non lo sa nessuno, non lo sanno nemmeno il mio direttore Missiroli e il mio redattore capo Mottola. O sono in viaggio o sono “a disposizione”.

Essere “a disposizione” significa non potere andare al cinema, non potere andare a pescare, non potere allontanarsi per una sia pur breve gita, non essere “mai” certi di poter essere ad un appuntamento. Significa essere sempre di picchetto o, se preferisci, trovarsi nella posizione di un pompiere in perpetuo servizio». Un mestiere «cuore-in-gola», lo aveva chiamato, «che quasi sempre arriva a mettere chi lo svolge in uno stato di esaltazione, di ossessione e anche di incubo». Il colpo di fulmine lo aveva sorpreso ancora studente, a Parma, e proprio alla «Gazzetta» Corradi aveva mosso i suoi primi passi da cronista: con l’adorazione e l’umiltà che non l’avrebbero mai lasciato, aveva iniziato come correttore di bozze e tuttofare in via Saffi («è proprio la Gazzetta la responsabile di questo modo di campare la vita e di viverla»).

Era il 1934, direttore – di quel foglio che al tempo si chiamava «Corriere Emiliano» – Giorgio Rosso. «Redigevo notiziole di cronaca, accorciavo un articolo troppo lungo, correggevo bozze, seguivo per il direttore la stampa nazionale. Articoli firmati pochissimi, forse una dozzina o meno», raccontava. Gavetta vera, lezione quotidiana del mestiere che Corradi non avrebbe mai dimenticato. Nel primo dopoguerra era stato assunto al «Corriere della sera», ma in quegli anni parmigiani di corteggiamento devoto al mestiere, Corradi aveva fatto in tempo a regalare alle colonne del nostro giornale pezzi unici per talento e passione. Era il 1939 quando, appena venticinquenne, si imbarcava su una «carretta del mare» piena di esplosivo, per raccontare, a bordo di un motoveliero, dodici giorni in mare, da La Spezia a Tobruch. Di seguito riportiamo il primo dei suoi resoconti, cullati dalle onde nel cuore del Mediterraneo. L’entusiasmo è trasparente come l’acqua salata che lo dondola prepotente: è quello di un ragazzo che salpa per la più grande delle avventure. L’impronta, però, è già la sua: una curiosità profonda che si tramuta in scrittura semplice ma irresistibile. Giusto il tempo di qualche riga per affezionarsi.

LA LETTERA

Estratto della lettera inviata da Egisto Corradi a Baldassarre Molossi

E' vero che avevo un deciso debole per il giornalismo. Lo avevo al punto che fin da giovanetto diventavo rosso di brage quando passavo davanti alla «Gazzetta», allora appena trasferita in via Saffi dalla Pilotta. Diventavo rosso per amore e timidezza e vergogna insieme, così come diventavo rosso nell’imbattermi in una qualche ragazza che mi piacesse. Io avevo dunque il debole ma fu proprio la «Gazzetta» a creare l’occasione. L’occasione fu di certi corsi di giornalismo che la Federazione fascista aveva organizzato promettendo la possibilità di «turni di servizio» di una settimana alla «Gazzetta» allora «Corriere Emiliano». Era l’esca che ci voleva per me. Dirigeva allora Giorgio Rosso. Fu lui ad accogliermi amabilmente con Alessandro Minardi. Allo scadere del mio «turno» chiesi, con il cuore in gola, di rimanere a lavorare come volontario. Lo ottenni, mai uomo fu più felice in vita sua. Feci di tutto: dalla correzione delle bozze alla stesura della notizia di cronaca, dalla «spunta» dei giornali alla «virgolatura» di una cartella della Stefani, dall’impaginazione alla titolazione. Tale fu il mio esordio. Gratuito esordio perché mai presi una sola lira se non pochi mesi prima dello scoppio della guerra. Comunque ero contento, nulla al mondo era per me più desiderabile dell’odore di tipografia della «Gazzetta». Ricordo che Rosso, dopo un paio d’anni di lavoro, mi disse: «Corradi, vi farò dare una piccola somma una tantum dalla Federazione» «No - risposi stupito - non voglio nulla. Lavoro solo per passione». E non ebbi nulla, merlo. Quel che desidero dirti a questo punto è che per chi intenda fare il giornalista non c’è migliore scuola di quella del giornale di provincia, specie di un giornale di provincia vivo come la «Gazzetta». Credo che tu sia d’accordo. In un piccolo giornale si fa tutto, si impara tutto, ci si rende conto di tutto. Il giornale di provincia è un’autentica università giornalistica. Tu credi che al «Corriere» sappiano che io saprei all'occorrenza impaginare? Non lo sanno, sono a mille miglia dal saperlo. Ed è bene che non lo sappiano. E tu credi che sappiano che io conosco i corpi ed i caratteri e che so creare tipograficamente un titolo? Non lo sanno ed è bene che non lo sappiano. Sanno soltanto che me la cavo in una certa specialità e in quella mi usano con una fiducia che mi lusingo di meritare; la specialità, caro Molossi, del pacco postale con l’indirizzo sbagliato. È certamente bene che in un grande giornale le cose vadano come vanno, ma questo non toglie che l’aver fatto il «tappa – buchi» alla «Gazzetta» per qualche anno non mi abbia fornito le fondamenta del mestiere. E non toglie che la «Gazzetta» non sia responsabile - lo dico con affetto - del fatto che mi trovo stanotte ad Algeri, come «inviato speciale». Fa molto caldo ma, caso singolare, c’è la nebbia. Pare di essere verso la nostra «bassa» d’autunno.

EGISTO CORRADI

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